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alt-country, folk rock di
Marco Restelli (13/04/2013)
C'è
una generazione di cantautori americani in ambito roots/folk che sta venendo su
veramente bene. Penso a nomi più noti, come i vari Ray La Montagne o Jeffrey Foucault,
ma anche a meno noti come Dylan LeBlanc o Ben Bedford. Il bello, come sempre,
è che nessuno di questi virgulti ha mai pensato di inventare qualcosa di nuovo
ma piuttosto, attraverso la propria sensibilità, di spaziare in territori tradizionalmente
già esplorati da qualche decennio da altri pezzi da novanta come Bob Dylan o James
Taylor, giusto per citare due fra i più grandi. Ed il risultato finale, normalmente,
sembra essere sempre piuttosto piacevole. Anche Jarrod Dickenson, texano
di origine e trapiantato poi nella grande mela, con questo The Lonesome
Traveler dichiara (più che un titolo, un programma da storyteller vagabondo)
le sue intenzioni di seguire le orme dei succitati e provare a sfondare. Nella
carovana trascina giovanotti che conoscono bene la strada come Greig Leisz
(collaboratore di Dave Alvin, Bon Iver e lo stesso La Montagne) o il bassista
David Piltch (k.d. lang, Mary Margaret O'Hara, Hugh Laurie) e altri due compagni
di viaggio di pari e fidata esperienza.
Le sue carte le gioca bene sin
dall'iniziale Ain't Waitin' Any Longer nella
quale per la sua amata il protagonista mette subito le carte in tavola, implorandola
impazientemente di presentargli mamma e papà per chiedere loro la mano della figlia
e poi di cercare presto una chiesa per il grande giorno. Il ritmo che coinvolge
tutta la band è stradaiolo quanto basta e, anche se nel corso dell'album l'episodio
risulterà più un'eccezione che la regola, il tutto suona piuttosto accattivante.
In The Northern Sea (dominata da una lap steel)
- ispirata nel testo ad un romanzo dello statunitense Steinback - il personaggio
principale è un pescatore del New England che fa fatica a tirare avanti la propria
famiglia (…and the catch is usually weak) proprio come quello della successiva
e quanto mai esplicita ballata No Work for the Working
Man (qui è il banjo a farla da padrone) che sembra tratta da una pagina
qualsiasi di cronaca dei difficili giorni che stiamo vivendo (…I sold all of our
furnitures…).
Certamente spicca anche la piano-driven ballad (con pedal
sullo sfondo) Rosalie, dove il romanticismo
tutt'altro che banale di Dickenson ci racconta con tenerezza di un uomo che dopo
aver lasciato la casa e la donna torna per dirle che con il tempo è cambiato ed
ha capito di non poter più vivere senza di lei (take my hand Rosalie…..we don't
have to face this world alone….so leave the porch light on, I'm coming home….I'llprove
my love to you somehow…I'm on my knees and i swear that i won't let you down).
Probabilmente la regina del disco. Sarebbe da citarle un po' tutte queste intense
storie come Back to Eden, I Remember June
nonché la splendida ed essenziale Seasons Change
(voce e chitarra), piazzata giusto nel finale, la cui linea melodica rievoca piacevolmente
una delle tante canzoni di quell'astro nascente che a mio avviso è Robert Ellis.
Risulterà, nell'economia del disco, come una vera e propria firma a beneficio
dell'ascoltatore per lasciarlo ben sperare sul futuro del nostro Jarrod: il ragazzo
americano ha tutti i fondamentali per far parlare ancora di sé a lungo, purché
chiaramente l'ispirazione non lo abbandoni, ma quello vale per tutti.