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set
(Arcade) Fire to the country di
Gianfranco Callieri (30/07/2013)
Sono sempre stati tanti i gruppi impegnati a mettere insieme tradizione, radici
e un pizzico di accessibilità pop (non diciamo alla Coldplay perché suona male,
però, insomma, quasi). Dopo il successo e i Grammy ottenuti dai Mumford & Sons,
però, si può dire che la formula, le cui ripetizioni si sono nel frattempo moltiplicate
in modo esponenziale, sia in pratica diventata un vero e proprio genere a sé stante,
con tanto di regole, schemi, segnali di riconoscibilità e luoghi comuni, tutti
scrupolosamente allineati nei lavori dei vari Lumineers, Edward Sharpe, First
Aid Kit, Civil Wars, Kodaline eccetera eccetera. A una prima impressione gli album
dei californiani The Lonely Wild potrebbero appartenere alla stessa
categoria, quella appunto dove folk e pop si incontrano per arrampicarsi su alte
vette di suono, costruite per lo più sulla base di strumenti "poveri" e desueti
(banjo, grancassa, violino, trombe, tromboni), in cima alle quali si trovano continue
armonizzazioni vocali e un gusto se vogliamo un po' facilone per la solennità
alla U2, sovente snaturata e volgarizzata in testi emo da Baci Perugina.
In
realtà, nelle canzoni del frontman Andrew Carroll e del multistrumentista e arrangiatore
Ryan Ross, le due eminenze grigie dietro ai dischi dei Lonely Wild, ci si smarca
dalla suddetta formula soprattutto grazie alla sei corde febbricitante di Andrew
Schneider e ai suoi epici grovigli di assoli, spesso in grado di trasportare i
brani, sempre consacrati a iniziali riprese di paesaggi elegiaci e bucolici, in
territori distorti, rumorosi, nervosi. Sicché The Sun As It Comes finisce
per assomigliare a una traduzione alt.country delle cattedrali sonore degli Arcade
Fire, e sebbene il paradigma dei brani (tranquilla partenza rootsy, ponte elettrico
e impennata finale) sconti una certa ripetitività, il loro complessivo funzionamento
non ne risente. Il pezzo di riferimento è la lunga Buried
In The Murder, che parte con voce e chitarra per espandersi in un mantra
infuocato composto da harmonies assortite, percussioni ipnotiche, archi onirici
e chitarre furiose. Altri episodi aggiungono qualche particolare a questo canovaccio
(qualche tromba mariachi in Everything You Need,
la coralità dei Fleet Foxes meno sballati in Banks And
Ballrooms, l'armonica da western all'italiana di Keep Us Whole),
ma senza mai contraddirlo in modo sostanziale e raggiungendo anzi la panacea acustica
dell'ultima Over The Hills in una dimensione
di rigorosa coerenza formale.
Ecco, l'unico rimprovero che si può muovere
ai Lonely Wild è quello di essere attaccati con fissità quasi patologica all'unica
ideuzza, peraltro valida, di un sound in apparenza non proprio strutturato per
resistere nel e al tempo. Per il momento, essendo buone le canzoni e fresca l'attitudine,
il rimprovero lo mettiamo in un cassetto e ci godiamo i dodici cowboy-movies,
maestosi e un tantino stralunati, di The Sun As It Comes, un disco comunque capace
di riscattare la fragilità del sua stessa natura attraverso l'attenzione ai dettagli
che restituiscono tutto l'amore di Carroll e soci per il Neil Young più crudo
e le melodie intramontabili di Ennio Morricone. Per il futuro, onde non sprofondare
nell'elenco già lunghissimo delle formazioni tapinamente piegate all'emulazione
dei citati Mumford & Sons e Arcade Fire, è lecito attendersi qualche scarto di
volontà, e di fantasia.