File Under:roots
rock, honky tonk di
Davide Albini (12/02/2013)
Strano
caso del destino: mentre per anni il suo nome è stato pressoché dimenticato, anche
dal pubblico Americana che lo avrebbe dovuto osannare, Boby Bare è ultimamente
tornato alla ribalta, innanzi tutto con lo splendido Darker
than Light, quindi con il suo nome stampato a chiare lettere sull'esordio
di questo musicista califonrniano, Rich Mahan, un tempo co-fondatore degli
Shurman e da qualche anno trasferitosi a Nashville. L'ironia di Blame Bobby
Bare non dobvrebbe sfuggire…e allora "prendiamocela" volentieri con il
vecchio pard Bare per avere ispirato queste dieci tracce a cavallo fra country
fuorilegge d'origine controllata e southern rock (contagiosa l'accoppiata Overserved
in Alabam e The Hills of South Dakota). Un disco breve, spigliato,
una delle uscite più spiritose, solari e convincenti che il panorama roots rock
abbia offerto negli ultimi mesi.
Mahan ci riporta ai tempi in cui il suono
outlaw esprimeva i sentimenti della working class americana, raccontandoci del
padre che, dopo una dura giornata di lavoro, tornava a casa e facendo scendere
la puntina del disco su qualche incisione di Bobby Bare si metteva a ballare in
salotto, lasciandosi alle spalle tutti i problemi. Blame Bobby Bare nasce da quel
mondo, dalle canzoni scritte con Shel Silverstein, dalle ballate più graffianti
e da quello stile che aveva il coraggio di infilare l'umorismo dentro la musica
americana. Registrato dirattemente su un due piste con un suono rigorosamente
live, l'album porta a casa il contributo di alcuni dei protagonisti di quella
lontana stagione, tra cui P.T. Gazell (Johnny Paycheck band) all'armonica,
la leggenda Robby Turner (Waylon Jennings) alla steel e la figlia di Bonnie
e Delaney Bramlett, Bekka, che colora di southern soul diversi episodi del disco.
Potremmo partire dall'omaggio più diretto, l'unica cover del disco, con il finale
di Put a Little Lovin On Me, brano di Bob
McDill del 1976 che Bare inserì nel suo The Winner and Other Losers, ma
è l'intera operazione, trenta minuti e poco più come si usava un tempo, a fare
l'inchino ad un'epoca, la stessa che ha scritto la storia della country music.
E i colpi vanno a segno con precisione: il piano honky tonk accompagna
Math, introducendoci alla spigliata giovialità dell'incisione, attraversando
quindi l'ubriaca Tequila Y Mota (palese mi
pare il riferimento all'hit di Bobby Bare, Tequila Sheila), mix piccante di outlaw
country e mariachi music, il southern feeling di Favorite
Shirt e la slide decisamente sudista di Money in the Bank, ancora
con il piano boogie di Randy Leago in evidenza. Un plauso ulteriore va fatto ai
musicisti, anche quelli con un curriculum meno altisonante di chi è stato citato
in precedenza: in particolare le chitarre twangy di Jd Simo sono la quintessenza
del genere, offrendo le giuste cadenze in Mama Found
my Bong e Rehab's for Quitters,
letteralmente scatenandosi nel rockabilly di I'll Get Off the Booze. Rich
Mahan dal par suo canta con voce disinvolta (non eccelsa è vero, ma sa stare nl
ruolo) e conoscenza della materia: non sarà un geniaccio, ma sono sicuro che se
una copia del suo Blame Bobby Bare finisse davvero nelle mani del suo ispiratore,
quest'ultimo ne andrebbe fiero.