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pop rock, heartland rock di
Davide Albini (07/06/2013)
Dio solo sa se ultimamente la scena Americana e in generale un po' tutto quel
rock che guarda alla tradizione, non abbia bisogno di una scossa, di qualche personaggio
con più coraggio nelle vene. La prima idea che mi sono fatto è che potenzialmente
Matt Mays avrebbe tutte le carte in regola per coprire questo ruolo: il
suo quinto album, Coyote, è pieno zeppo di belle, strambe idee,
di curve e cambi di umore, si sporca le mani e segue un po' tutte le inclinazioni
dell'autore. Forse persino troppo: ed è questo il problema principale di un disco
che alterna momenti di assoluta rivelazione, lasciatemelo dire, con ballate elettriche
e un'atmosfera degna del migliore heartland rock, ad altri in cui si perde in
citazioni, pasticci sonori, arrangiamenti che vorrebbero stupire, sparigliare
le carte e invece finiscono per essere soltanto fastidiosi.
Andando con
ordine dovremmo ricordare che il canadese Mays è stato un tempo membro dei Guthries,
piccola meteora locale dell'alternative country (due interessanti lavori nello
scorso decennio), quindi ha intrapreso una carriera solista sfiorando quattro
volte la candidatura ai Juno awards (i Grammy cananadesi) e raggiungendo un seguito
di culto in patria, grazie alla pubblicazione di Matt Mays + El Torpedo nel 2006.
Nello stesso anno è stato chiamato ad aprire il tour in Canada dei Black Crowes,
facendo un'apparizione anche al Conan O'Brien show, strada che gli ha aperto le
porte del festival South by Southwest di Austin, dove è stato una delle soprese
più chiacchierate. Ha quindi vissuto fra il Messico, il Costa Rica (dove è stato
girato il video del singolo Indio e dove Mays
ha dato sfogo alla sua seconda passione, il surf) e gli Stati Uniti. Credo non
sia un caso che Coyote venga pubblicato ad un anno di distanza sul mercato statunitense,
cercando di uscire dai confini nazionali.
Le qualità per sfondare ci sono
tutte, anche perché Matt Mays non disdegna un rock di grana grossa, efficace e
immediato, con accenti sudisti, come ci appare nella citata Indio o in Take
It on Faith, Ain't That Truth e
Slow Burning Luck, brani che con scaltri accorgimenti, chitarre sixties
e ritmiche pop moderne, ricordano alcune soluzioni dei Wallflowers di Jakob Dylan.
O se preferite un riferimento più attuale, spesso segnalato anche sulle nostre
pagine, Mays mi ha rammentato un altro rocker dalla melodia facile come Butch
Walker. Entrambi stanno con un piede nel mainstream e uno nella tradizione, ma
senza apparire tropo conservatori. Questo secondo aspetto è quello che colpisce
di più: Mays infila calde ballate ricche di soul sudista e fragranze country,
come accade in Loveless e Chase
the Light, aumentando poi di poco la temperatura delle chitarre in
Zita e Stoned, ottimi esempi di classic
rock americano. Peccato dunque che, come accennato in partenza, lui e la band
(ottimo il chitarrista Jay Smith) si facciano prendere la mano con le interferenze
di Rochambo (i Clash di Sandinista?) la psichedelia di Madre Padre
(il riff iniziale rubato a Taxman dei Beatles?) o alcuni ibridi rock senza arte
né parte quali Drop the Bombs. Messa da parte questa confusione potrebbe
riservare delle soprese: vediamo se non sarà un'altra scommessa perduta.