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alt-country, folk rock di
Fabio Cerbone (12/04/2013)
Sorpresa
sorpresa, il cuore alternative country batte ancora forte dalle parti del North
Carolina. Una delle regioni americane che potremmo definire chiave nella definizione
e nello sviluppo del genere, lungo tutti gli anni novanta e duemila, ritrova nell'esperienza
dei Mount Moriah un sodalizio in grado di risvegliare antichi amori. È
attorno alla scena studentesca del Sud, da sempre così strettamemente legata all'esperienza
del cosiddetto college rock, che Heather McEntire e Jenks Miller hanno dato forma
al progetto, in realtà partendo da esperienze musicali molto dissimili e certamente
lontanissime dal suono delle radici. Un'autrice, la McEntire, dal passato indie
rock, un chitarrista, Jenks Miller, addirittura dalla feroce educazione black
metal: binomio di contraddizioni che abbiamo già incontrato, quando le nuove generazioni
scoprivano la memoria folk e si innamoravano della brezza acustica proveniente
dai Monti Appalachi.
Deve essere accaduto qualcosa di simile ai Mount
Moriah, che debuttano in casa Merge con un lavoro, Miracle Tmeple,
che ricalca le intuizioni dell'omonimo esordio del 2011 (c'era stato anche un
primo, timido e indipendente tentativo nel 2010 con The Letting Go), facendo convivere
ballate country uggiose e un folk rock malinconico che echeggia quel percorso
che si distende da Neil Young e arriva a Bonnie Prince Billy. Qualcuno ha scomodato
la voce di una giovane Dolly Parton per descrivere la vita infranta, il desiderio
di fuga e la tipica inquietudine provinciale insiti dalla voce di Heather McEntire,
ma stilisticamente l'incedere melodico di Younger Days,
le colorazioni rock sudiste di Bright Light
e gli intrecci chitarristici di Eureka Springs
ricordano più volentieri la scuola di Lucinda Williams ai tempi del capolavoro
Car Wheels on a Gravel Road, e più in generale di tutte quelle chanteuse americane
che hanno popolato l'Americana di questi anni (dalla scura densità di una Jesse
Sykes in Miracle Temple Holiness e Telling
the Hour agli squarci di luce e dolcezza in White Sands e Rosemary,
che toccano alcune corde tipiche dei Cowboy Junkies).
I Mount Moriah dal
canto loro aggiungono una coerenza sonora che ha il pregio di definire ogni minimo
dettaglio della loro musica, e al contempo ha il difetto di non uscire troppo
dai binari della bella calligrafia. Le canzoni tuttavia, nella loro semplicità
armonica, sono avvolgenti e hanno charme da vendere, ad esempio quando approcciano
il walzer country più classico in Connecticut to Carolina
(ai cori la partecipazione di Amy Ray delle Indigo Girls) oppure giocano
sulla tensione fra organo e chitarre twangy in Swannanoa
e sfruttano tutte le qualità evocative di una pedal steel in Union Street Bridge.
Per il senso di semplice serenità e per l'abbandono nostalgico che riflettono
questi brani, i Mount Moriah ricordano soprattutto i canadesi Deep Dark Woods,
una delle rivelazioni roots della scorsa stagione. La qualità di scrittura non
è la stessa, ma l'humus dell'ispirazione è assai simile.