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country folk, Americana di
Marco Restelli (13/02/2013)
Ci
sono dischi che hanno lo straordinario potere di prenderci e portarci in un altro
luogo, a volte addirittura in un'altra epoca. I loro suoni e gli strumenti che
li hanno prodotti sono così radicati alla terra nella quale sono stati rispettivamente
concepiti e suonati che è quasi impossibile non salire, al momento dell'ascolto,
sul virtuale teletrasporto che gratuitamente (si fa per dire) ci offrono. È certamente
il caso di questo Royal Street, che già a partire dalla prima nota
di Bring You Home idealmente ci catapulta
in un saloon del Texas le cui porte, come per magia, ci si aprono dinanzi invitandoci
ad accomodarsi ad uno dei tavoli di legno, lasciati appositamente liberi per noi.
Nello spazio dedicato all'intrattenimento musicale, una ragazza il cui timbro
è piacevolmente "posizionato" a metà strada fra le voci di Rosanne Cash e Joan
Armatrading, viene invitata a cantare e così la serata ha inizio.
In ognuno
dei pezzi che esegue, la forza della tradizione country folk emerge con particolare
efficacia grazie al supporto degli equilibrati violini di Tim Lorsch, delle suadenti
pedal steel guitar di Antony Crawford e Mike Daly oltre che della dolce trama
di una sognante fisarmonica (Steve Conn). Quando intona
Barking Dogs, ballata midtempo d'altri temi, risulta pressoché impossibile
non alzarsi dal tavolo e prendere per mano la propria amata per concedersi un
ballo, senza tuttavia perdere l'attenzione sulla storia che racconta di un vecchio
amore vissuto e finito al confine Messicano, dove la povertà purtroppo continua
a mietere le sue vittime (bella e discreta la seconda voce di Dan Eubanks). Il
ritmo prima rallenta con la successiva ed intima Nickel
in the Vase per poi accelerare di nuovo con The
Story of My Heart, nella quale Amanda Pearcy dichiara di voler
essere portata altrove "I ain't where I oughtta be baby, Take me anywhere".
Non
lasciano indifferenti la title track (sorta di malinconica preghiera che evoca
una passeggiata, nel cuore di New Orleans, piena di "preziosi rimpianti"), A
Thousand Recollections (notevole l'organo di Gene Rabbai) alla quale
consegno lo scettro di perla del disco, così come l'altrettanto degna di nota
Ordinary Lives, sin dal titolo così emblematicamente
ricca di rassegnazione. Chiude il disco No Expectations
la cover dei Rolling Stones (da Beggars Banquet), languidamente eseguita proprio
come l'originale e assolutamente godibile. Per ovvi motivi di sintesi la descrizione
della piacevolissima serata non prosegue oltre, ma a chi volesse "fare un giro"
e riviverla integralmente non resta che reperire "as soon as possible"
Royal street (in uscita a fine febbraio) e lasciarsi incantare da Amanda e la
sua affiatata band. Non credo proprio che se ne pentirà.