Frontier Ruckus
Eternity Of Dimming
[
Quite Scientific/Loose Music
2013]

www.frontierruckus.com

File Under: indie-folk tales from the Midwest

di Yuri Susanna (12/03/2013)

Permettetemi, per una volta, di essere autoreferenziale. Ho scoperto i Frontier Ruckus troppo tardi per scrivere tempestivamente del loro precedente disco, Deadmalls & Nightfalls, uscito nel 2010 e transitato nelle mie orecchie magno cum gaudio più o meno un anno dopo. Perciò ho atteso con crescente impazienza il nuovo lavoro, scalpitando per la smania di condividere la mia scoperta con amici, parenti e lettori di Rootshighway (non necessariamente in quest'ordine di importanza). Questi ragazzi mostrano radici evidenti, ma una personalità piuttosto unica. Potrei definirli la quadratura del cerchio tra l'ammaliante verbosità indie-folk dei Decemberists e la placida malinconia alt-country degli Avett Brothers, ma anche così darei solo un'idea vaga. Meglio ascoltarli di persona (è un invito). Adesso che mi trovo tra le mani Eternity of Dimming e leggo recensioni più che positive (anche dalla stampa italiana), mi riuscirebbe facile unirmi al coro che annuncia un piccolo capolavoro.

In effetti questo si presenta decisamente come un magnum opus, per dimensione e impegno: un doppio disco di venti canzoni, unite dal fil rouge di un'elegiaca rievocazione di vite smarrite nella provincia americana (i Ruckus arrivano dal Michigan) negli anni Novanta. Una narrazione che mescola i punti di vista e moltiplica voci e commenti. Tanto che non è mancato chi l'ha definito una sorta di Spoon River dell'America suburbana (avete notato quella specie di cimitero di oggetti fin de siecle - più che altro vecchi elettrodomestici - in copertina?). E' un bel disco, Eternity of Dimming. Se però dovessi sbilanciarmi a definirlo il capolavoro della band, avrei qualche esitazione. E' un sunto dello stile elaborato nei due dischi precedenti (a proposito: il primo, The Orion Songbook, è bello quanto il secondo), ma un sunto dai toni un po' dimessi, privo di colpi d'ala. La musica procede con passo meditabondo, ancorata ai tempi medi, e questo fa sì che, ascoltate in fila, queste venti canzoni diano a tratti un senso di immobilità. Non che ci sia materiale di scarto, questo no, ma per ingollare tutto in un solo boccone ci vuole un certo impegno.

Lo spazio per esplorare nuovi linguaggi non sarebbe mancato, ma a conti fatti la sola novità consiste in una certa de-americanizzazione dei suoni (un paradosso, per un disco così fortemente yankee nella concezione e nei temi): oggi i Frontier Ruckus suonano più indie che alt-country e in alcuni momenti sembrano guardare oltreatlantico (una certa aria da Belle & Sebastian, una lontana eco di Smiths). Ma sono slittamenti di pochi centimetri, nella sostanza il baricentro della loro musica resta ancorato a tre ingredienti basilari: la voce vischiosamente ipnotica di Matt Milia (sue anche le liriche), il banjo di Davey Jones, che innerva i brani con il suo picking pervasivo, i fiati (la tromba soprattutto) di Zachary Nichols, che stendono un velo di stralunata malinconia sulla narrazione. C'è qualche chitarra elettrica in più, qualche eccentricità (le tubular bells!) approntata dal produttore Jim Roll, ma sono gocce in un fiume che scorre placido senza mutare corrente per un'ora e mezzo. Non cito alcun brano: ascoltate e fate le vostre scelte. E poi ascoltate anche i due lavori precedenti: scoprirete una band che - se c'è una giustizia - lascerà il segno.


    


<Credits>