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rock
storytelling di
Fabio Cerbone (29/08/2013)
Otto dischi in meno di dieci anni sono indice di un artista che sta macinando
imperterrito la sua strada: è parecchio tempo infatti che Leeroy Stagger si
è messo in cerca della sua voce, cambiando registro, stile, musicisti, fino a
quando la collaborazione con Ryan Uschenko (chitarre) e Nick Stecz (batteria)
non ha dato forma ad un trio, più volte ribatezzato, che ha chiarito meglio la
direzione della sua musica. Quello che mancava ancora al rocker canadese era forse
un direttore d'orchestra che ne amplificasse obiettivi e inclinazione e l'arrivo
di Steve Berlin (Los Lobos) alla regia di questo Truth Be Sold sembrerebbe
proprio la chiusura di un cerchio. Resta tuttavia l'impressione che Stagger, come
già accaduto in Little Victories o nel recente Radiant
Land (solo un anno fa, sempre su Blue Rose) sia un comprimario del
suono Americana più elettrico e dal cuore malinconico, inevitabilmente condannato
a fare i conti con la stella polare di Ryan Adams (suo contraltare più famoso…e
di talento) e più in generale con una concorrenza di colleghi, sonorità, dischi
che hanno tracciato le linee guida di questo genere.
Truth Be Sold è fuor
di dubbio l'album meglio calibrato della sua recente produzione: ambizioso, intensamente
rock in alcune sue parti, che prova di tanto in tanto a sfondare la barriera della
bella calligrafia alternative country a cui Stagger si è votato con dedizione.
Accade a sprazzi e non manca di convincere: dall'apertura acida e inquieta di
una Memo che rimanda al migliore sound dei
Crazy Horse alla tirata rock in stile Stones di Goodnight
Berlin, dove il sax di Berlin (nessuna omonimia voluta con il titolo
del brano, che narra delle strade della città tedesca) entra propotentemente
in gioco, dal riff nervoso alla testa di un garage impenitente come Cities
on Fire alla saturazione che investe con connessioni sixties
Have a Heart nel finale. Sono però lampi improvvisi che si adattano
ad un impianto generale più mite, il quale finisce per risultare uno standard,
tra ballate malinconiche con orizzonti da America provinciale e sequenze di suoni
e arrangiamenti tutti modulati sull'abc del perfetto brano alternative country.
Quando compare la canonica pedal steel di Bryan Daste in Break
My Heart siamo nel pieno di questo adagio e non usciamo più dal recinto:
riflettendo sulle miglia percorse (altro clichè inevitabile del musicista), sul
ruolo della celebrità e sulle amicizie del settore (c'è persino una traccia intitolata
ESP, come il trio formato con Tim Easton
e Evan Phillips), Leeroy Stagger ci offre un pop elettrico screziato di Americana
che staziona a metà strada fra Tom Petty e Ryan Adams, sfiorando una piacevole
leggerezza in Celebrity e Sold Down the River,
e tentando infine qualche scatto degno della lunga tradizione heartland rock in
Mister. Nulla di cui lamentarsi, ma restiamo
sempre un passo indietro rispetto alla definitiva sbocciatura.