Whitehorse
The Fate Of The World Depends On This Kiss
[
Six Shooter/ Blue Rose
2013]

www.whitehorsemusic.ca

File Under: folk rock, country noir

di Fabio Cerbone (29/03/2013)

Pubblicato la scorsa estate in Canada per la Six Shooter, una delle etichette più intraprendenti nello stanare nuovi talenti in ambito Americana, il vero e proprio debutto dei Whitehorse (alle spalle un omonimo ep di otto brani) trova oggi lo sbocco di una distribuzione europea grazie alla Blue Rose, che ultimamente sembra essersi garantita in blocco l'intero parco artisti della citata Six Shooter. The Fate of the World Depends on This Kiss ha incassato discrete attenzioni a livello nazionale, rendendo i Whitehorse uno degli act più chiacchierati della scena folk rock canadese. La definizione è volutamente generica, perché la musica di Luke Doucet e Melissa McClelland, coppia artistica ma anche nella vita, ruota intorno ai semplici concetti di tradizione e di canzone d'autore senza per questo restare prigioniera del passato a tutti i costi. Ci sono sottili rimandi alle trame dell'alternative country, di una ballata rock ombrosa, ma anche maliziose aperture pop e alla modernità dei linguaggi, cercando di sfruttare l'alternanza delle due voci.

È indubbiamente un passo avanti rispetto all'interlocutorio ep di cui sopra, dando l'impressione di un lavoro più ragionato e stimolante a livello musicale. Su tutto troneggia la direzione artistica di Doucet, chitarrista di prima fila con inflessioni twang e classic country nella sua Gretsch, che distende praterie per il sound del gruppo in Achilles Desire, tra i momenti più affascinanti di un album che ha dalla sua una prima parte assolutamente ispirata e un secondo tempo più confuso e ondivago. Se infatti Devil's Got a Gun insiste sul crinale di un folk rock dalle tinte noir e sensuali, gemellandosi con il ringhiare chitarristico ricco di riverberi di Peterbit Coalmine, squarciata da intermezzi pop, l'alternanza con brani di ispirazione più acustica e tradizionale (Mismatched Eyes e Cold July) garantisce il giusto equilibrio delle voci, graziose eppure mai artefatte. Qualche problema comincia ad affiorare con il pasticcio di Jane, tentativo maldestro di infilarsi in un blues futurista alla Eels che cozza con il resto del repertorio (tenativo che torna a galla con esiti più interessanti in No Glamour in the Hammer).

Fuori posto, non c'è dubbio, ma anche presagio che qualche caduta di tono è prevista all'orizzonte: l'ideale lato b cerca allora di riacciuffare la magia iniziale con la semplicità melodica di Out like A Lion e gli echi distanti di Annie Lu, ma ci fermiamo alla bella calligrafia. Meglio quindi la curvilinea Radiator Blues, con voci filtrate e una tenzione vagamente swamp nelle belle chitarre di Doucet. Innegabile che sia lui il timoniere, titolare di buona parte della strumetazione (doversi bassisti e batteristi si alternano nei singli brani, ma il resto è nelle sue mani) e di una fantasia di arrangiamento che espande le possibilità dell'Americana presentato dal duo. Anche Wisconsin se la cava egregiamente, ritrovando la via di uno scuro western sound attraversato da una dolce malinconia country rock, fino alla sublimazione di questo stesso stile nel finale di Mexico Texico, sospesa fra chitarre morriconiane, steel e un dolce pianoforte, da qualche parte nel deserto insiema ai Calexico.


     


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