Con un'infanzia difficile, cresciuto da due genitori entrambi ciechi, ed un'età
adulta altrettanto travagliata, complice un doloroso divorzio, William Fitzsimmons
sembra aver trovato nella musica la propria salvezza da una inevitabile deriva
esistenziale. Musica da sempre presente nella vita del barbuto songwriter, prima
come necessità comunicativa per appianare l'ostacolo fisico della cecità genitoriale,
e in seguito quale salvifico tramite attraverso il quale esorcizzare i propri
demoni interiori. Ne sono un esempio tanto l'incensato The
Sparrow And The Crow, malinconica riflessione sulla fine del proprio
matrimonio, quanto la timida solarità di Gold
In The Shadows, a siglare, musicalmente, l'alba di una nuova esistenza,
artistica e non.
Un'armonia emotiva ulteriormente acuitasi in questi ultimi
tre anni definiti, dal nostro, come "meravigliosi, dolorosi, lunghi ma incredibilmente
brevi, tra i più educativi e gratificanti che io abbia mai vissuto" e oggi permeante
i pentagrammi di questo suo sesto lavoro, seppur filtrata attraverso un monocromatismo
dalle grigie tinte autunnali, dove protagoniste sono, come sempre d'altronde,
una voce, dalla disarmante fragilità e il delicato pizzicare di una sei corde
acustica. Prodotto da Chris Walla dei Death Cab For Cutie, Lions
si colloca, infatti, giusto a metà tra la pacata ariosità del suo predecessore
e la chiaroscurale mestizia di The Sparrow And The Crow, mostrando il songwriting
fitzsimmonsiano nella sua più cruda essenzialità, increspato appena da mai invasive
cesellature elettriche e da ovattate decorazioni elettroniche. Vedono così la
luce composizioni dalla tenue, umbratile bellezza, come l'opener Well
Enough, avvolgente nel suo trattenuto intreccio elettroacustico,
o la soavità di una Sister dalle incantevoli
armonizzazioni vocali. Sulle medesime coordinate si attestano le acustiche oscillazioni
umorali di una Brandon di rarefatta delicatezza folkie, e l'agreste quiete
di una sussurrata Josie's Song.
Mirabile
per costruzione armonico-ritmica è From You,
frutto di un maggior lavorio in fase di arrangiamento, tra lo strascicare ritmico
della batteria, l'ostinata liquidità d'un organo, e gli evocativi fraseggi della
chitarra elettrica, mentre la title track pare, dal canto suo, trovare giovamento
percussivo dal battere digitale di una drum machine. Nevrosi elettriche caratterizzano
l'incipit di Centralia, prima di stemperarsi
in una livida, scura, ballata, su di un fondale di crepitante rumorismo. E se
la "familiare" ombra di Nick Drake si allunga tanto sulle bucoliche morbidezze
acustiche di Hold On, quanto nell'arpeggiare, in punta di dita, di Blood/Chest,
ben contrappuntato dal sinuoso scivolare dell'archetto di un violoncello e dal
placido picchiettare dei tasti del pianoforte, la squisitezza melodica di Fortune
è, al contrario, un effimero raggio di sole teso a rischiare il grigiore malinconico
di un songwriting confermatosi, pur nella sua monocromatica essenzialità, ancor
una volta alquanto ispirato.