Boister
Your Wound is Your Crown
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Boister
2014]

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File Under: free music

di Marco Poggio (07/02/2015)

"Una voce scura e terrosa, che fa sembrare Tom Waits una donnicciola"; con queste parole il compianto Jim Dickinson descriveva Anne Watts, cantante, compositrice e de facto leader dei Boister. E di musica quel vecchio marpione se ne intendeva eccome, anche se tuttavia queste sperticate lodi possono forse sembrare di parte, visto che egli si era accomodato in cabina di regia per Some Moths Drink The Tears Of Elephants, precedente release proprio dell'ottetto di Baltimora. Un dubbio fugato, fortunatamente, fin dalle prime note del loro settimo sigillo discografico, Your Wound Is Your Crown, libero profluvio di armonie, battiti e parole, dove le composizioni, partendo dai confini sicuri della forma canzone, si aprono a dilatate improvvisazioni, in un costante turbinio sonoro di ardua catalogazione.

Notturne e fumose divagazioni jazzistiche, sgangherato incedere bluesy beefheartiano, esotiche aperture verso suadenti melodie orientali e intricate trame canterburiane vanno ad affollare, infatti, i bulimici spartiti boisteriani, forgiando un sussultante tappeto musicale, sul quale spicca, nel suo intenso declamare, la voce della Watts, pregna tanto del pathos della più enfatica Patti Smith quanto delle grigie tonalità d'una malinconica Mary Gauthier. Non mancano tuttavia episodi interamente strumentali, ove maggiormente si avverte l'importanza dell'approccio free form alla base dell'economia sonora del collettivo, come nell'opener Emmeline (Prelude), per l'appunto un placido preludio, dal flemmatico svolgersi jazzy, o in una coltraniana Martillo, dove la parte del leone è affidata al fiati di John Dierker e di Craig Considine. Pare invece di assistere ad un reading della summenzionata Smith, accompagnata da una, neanche troppo, irreggimentata Magic Band, di beefheartiana memoria, in una Crown dal passo claudicante, così come torna alla mente la vocalità della Gauthier nell'enfatico svolgersi narrativo di Sycamore.

Al contrario in 14 i nostri rivolgono la propria attenzione agli echi musicali della vecchia Albione, ed in particolare a quelli provenienti dalla Canterbury dei Soft Machine, coniugando psichedelia e jazz, in un impetuoso strumentale costruito su controtempi, stacchi, ripartenze e pindarici dialoghi fiatistici, per poi far "visita" alla shakespeariana Stratford-upon-Avon, rielaborando le bardiane liriche de La Tempesta, nella pianistica litania di una Yellow Sands dall'afflato cameristico. Il sincopato palpitare neworleansiano della conclusiva As The Ship Goes Down, con, ancora, più di un rimando vocale alla succitata Gauthier, chiude degnamente un album forse di non facile fruizione, necessitante altresì di un ascolto attento e partecipato per poterne comprendere appieno la variegata stratificazione. Forse la musica dei Boister non "eleverà o migliorerà la vostra vita", come profetizzato a suo tempo dallo stesso Dickinson, ma indubbiamente saprà dispensarvi momenti di rara, immaginifica suggestione.



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