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comebacks di
Domenico Grio (08/04/2016)
Che
gli anni ottanta siano stati tutt'altro che quella sorta di medioevo della cultura
giovanile che qualche critico "illuminato" ha provato per lungo tempo a sostenere,
è dato oramai pacificamente acquisito. Un periodo in cui parecchi artisti di rango,
pur operando all'interno di ben delineate "scene", riuscivano a mantenere delle
forti peculiarità, a sviluppare idee originali e a dare sfogo alla loro creatività
tirando fuori dei lavori di assoluto valore, destinati a divenire ambiti punti
di approdo per le future generazioni. In quest'ottica, i Violent Femmes,
formatisi a Milwaukee proprio nel 1980, costituiscono un ottimo esempio di band
"seminale" ed i loro primi due album (Violent Femmes e Hallowed Ground) hanno
la struttura, la forma e la genialità di pertinenza esclusiva dei capolavori.
Brian Ritchie (basso), Victor De Lorenzo (sezione ritmica) e Gordon Gano
(voce e chitarra), erano riusciti, con approccio intellettuale, mimetizzato da
un fare solo in apparenza stralunato, a coagulare i suoni della tradizione rurale
con lo spirito trasgressivo e anarchico del punk, utilizzando peraltro una strisciante
e raffinata ironia che si rintraccia ovviamente nei testi ma anche nell'uso di
una strumentazione minimale ed in larga parte poco convenzionale. Il guaio è che,
dopo aver dato alle stampe gli ottimi The Blind Leading the Naked (1986) e 3 (1989),
la verve della band sia andata via via scemando, al punto da far temere per una
fine prematura del gruppo. Questo We Can Do Anything arriva piuttosto
inaspettato, dopo ben 16 anni di sostanziale silenzio discografico e vari tentativi
di rimettersi on the road a indossare ancora i panni dei buskers. Diciamo innanzitutto
che si tratta di brani inediti ma pescati dagli archivi di Gano, vecchie registrazioni
rivedute e corrette, cercando però di preservare lo spirito dissacrante degli
esordi. E' questo il motivo per cui queste dieci tracce riescono davvero a riprendere
il filo del discorso interrotto diversi lustri fa, il che da un lato è certamente
intrigante, ma dall'altro inevitabilmente pone la questione sul piano del confronto
diretto con la loro monumentale storia discografica.
Il paragone purtroppo
non regge e non potrebbe essere altrimenti e persino quello che c'è di buono in
questo ultimo lavoro, per la verità molto, finisce per essere sminuito dall'ingombrante
passato della band. In altri termini, se questo fosse il disco di un gruppo sconosciuto,
riceverebbe certamente grossi apprezzamenti ma con un marchio di fabbrica così
importante e con delle aspettative chiaramente elevate, il giudizio arriva a spingersi
non troppo oltre la sufficienza. Il dato forse più interessante è invece l'assenza
di un mood mestamente nostalgico e ciò per il semplice motivo che questo non è
un disco che ripropone gli anni ottanta, ma è in definitiva un disco degli anni
ottanta. In tal senso, dalla martellante Memory,
alla cavalcata western di I Could Be Everything,
dalla dinoccolante Issues, alla ruvida Holy Ghost (probabilmente
i brani più rappresentativi del loro universo musicale), dall'old style di What
you Really Mean e Foothill, al country irregolare di Untrue
Love e di I'm not Done, tutto è genuinamente Violent Femmes
anche se di una "Blister in the Sun", di una "Add it Up" o di una "Country Death
Song" non c'è purtroppo traccia.
In ogni caso, l'importante è aver ritrovato
queste tre "signore" del Wisconsin, che di classe ne hanno da vendere, nella speranza
che, scrollata la patina di ruggine, possano prendere slancio da questa nuova
importante partenza e regalarci ancora tante altre magie in musica.