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dream country di
Luca Volpe (23/11/2017)
Un luogo comune è quello di dire che parlare delle mezze stagioni sia un luogo
comune: ma le fiamme ardono i boschi delle Alpi, e un sole malato filtra fra la
nebbia di un inquinamento che la Pianura Padana lavora più delle sue primizie,
mentre il mondo intero pare immerso nella coltura di braci sotto la cenere...
un insieme di sincronicità: i problemi politici in Spagna e una catalana, Joana
Serrat, che pubblica un disco chiamato Dripping springs. Ma
scendesse la pioggia e battesse sui vetri con l'intensità di un temporale che
culli un sonno non rotto dai risvegli! Un vitale cambio di produttore l'ha portata
alla corte del signor Israel Nash, che si riprende dal letargo coadiuvato da Ted
Young (ha "solo" fatto il tecnico per Lamb of God, Andrew W. K., Blonde
Redhead, Madrugada, Sonic Youth, Moby, Rolling Stones). I due, aiutati da buoni
turnisti, hanno sgrezzato la materia inerte indie portando alla luce il talento
di questa chitarrista cantante dalla voce gentile e carezzevole, in un ibrido
che si può chiamare "Dream Country".
Forse eravamo tutti alla
ricerca di questo da anni, ovvero l'incrocio fra i Cocteau Twins e Joan Baez fatto
con una personalità spiccata che va a estrarre i melodiosi arrangiamenti degli
anni 50-60 del Pop con effetti collaterali positivi. Western
Cold Wind è l'addio al suo passato, con un epico passo spezzato dall'incedere
ritmato variabile e guidato dalle armonie suadenti della voce; allo stesso modo,
Unnamed con un lento incedere ascensionale tocca empirei armonici oggi
impossibili per i tetri cantautori dall'immaginario digitale. Lost Battles
s'adagia in un retroterra hawaiano, in cui ogni istante viene lavorato e cesellato
con dovizia. Più country è Trapped in the Fog,
pur imbevuta di un diluvio psichedelico di steel guitar che sembra un aggiornamento
dei Buffalo Springfield. Delicato interludio personale è Farewell,
con il saluto alla terra natia sussurrato nell'effettistica. Viene repentinamente
negata da Shadows of time, un pop soul deciso che nel finale si lancia
verso una fuga progressiva degna dei dimenticati Space Opera. Segue la lenta Candles,
un pastello che spazia fra toni sereni e improvvisi panorami interiori segnati
da toni minori di chitarra che ne indicano il luogo di nascita in regioni inaccessibili
dell'autrice.
Un'ennesima inversione è la rapida Come Closer, assai
più tradizionale e nashvilliana, ma essa stessa viene velata dalla seguente The
Farden, dove il richiamo alla Enya migliore viene evocato nei vapori
di una nitida rarefazione che descriva un'esperienza extracorporea. Ma pure questo
capolavoro viene fatto seguire da un mid tempo, Walk In Sin, che più classico
non si può. Quadratura del cerchio è Keep on Fallin,
speculare all'inizio e col senso di un arrivederci. Nel frattempo, con questo
delizioso calice ornato da gemme, Joana Serrat ci offre per ora il meglio
che può stillare, sciogliendo il ghiaccio karmico del freddo mondo occidentale
nell'acqua primaverile che aspettiamo.