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rumore bianco di
Gianfranco Callieri (09/10/2018)
Anche
se non c'entra, o meglio c'entra fin troppo, verrebbe da chiedere, davanti all'ennesimo
lavoro imprescindibile di Kristin Hersh - fondatrice di Throwing Muses
e 50FootWave nonché affermata autrice solista - arrivato peraltro a due soli anni
di distanza dall'altrettanto strepitoso Wyatt At The Coyote Palace (2016), quale
senso abbia, se non per produrre una qualche forma di discriminazione all'incontrario,
discutere d'identità di genere o usare locuzioni (irricevibili) come l'abusatissima
"al femminile" per descrivere un fenomeno di solito ricondotto alla capacità espressiva
dell'universo maschile. Perché arrivata all'undicesima opera da titolare (escludendo
dal conteggio la mezza dozzina di autoproduzioni acustiche commercializzate in
solitudine nel corso del 2008), la cantante e chitarrista di Atlanta conferma
di aver ben poco da invidiare, in termini di rabbia, aggressività, scartavetrate
fluttuazioni di accordi psichedelici e burbera sporcizia dei riff, a qualsiasi
collega dell'altro sesso. Anzi, pensando a questi ultimi non ne sovviene un altro
che, in quasi quarant'anni di attività, abbia mantenuto intatto un tale coefficiente
di creatività scontrosa, lunare e imprevedibile.
Possible Dust Clouds
parte dalla voglia di rivisitare gli stili del passato, quindi non solo
il folk-rock elettrico e obliquo delle Throwing Muses (formatesi del resto nel
1981) ma un po' tutto l'ambiente sonoro della scena - il grunge dei primi '90
- in cui costoro acquisirono una minima seppur indistruttibile razione di notorietà,
e tuttavia lo fa lasciandosi felicemente alle spalle ogni pretesto di razionalizzazione
e metabolizzazione, evitando insomma di storicizzare in senso intellettuale i
suoni di un tempo per riproporli, invece, selvatici e basilari, carichi di rumore
incontrollato e distorsioni al limite dell'ecchimosi acustica. Accade insomma
che di una semplice o non meditata stratificazione di chitarre l'album sappia
restituire mode e modi, saperi e sapori, dettagli e intrugli di un'epoca diversa
nella quale gli esorcismi in chiave rock erano, appunto, pure e irruente cerimonie
di terapia spontanea e non gemebonde sedute di psicanalisi (cui la scrittura di
Hersh, diagnosticata schizofrenica prima di compiere vent'anni, non è affatto
estranea); un'epoca in cui il dolore era dolore, il desiderio era desiderio e
una certa musica, con i suoi cicli, sapeva disciplinare entrambi mettendo d'accordo,
per una volta, sogni e disperazioni.
Ecco, quindi, il folk disarticolato,
scheletrico e travolto dal rumore di Lady Godiva e Half
Way Home, il ruvidume devastante di un'irrefrenabile Lethe-Gain,
il martellante hard-rock anni '70 di Loud Mouth,
le pennate assordanti e sgraziate della catartica Tulum
e la sinistra, distaccata ferocia della spettacolare Gin,
fino all'acme dissonante della spigolosa Breathe In,
vertice muscolare di tutta l'operazione, dove oppressione e liberazione s'intrecciano
di continuo. Possible Dust Clouds dice il titolo, come quando le previsioni del
tempo, paventata la sabbia dello scirocco, riferiscono della possibilità che appaiono
in cielo nubi di polvere: in questo caso, però, al di là delle condizioni meteo,
non c'è l'evenienza bensì la concretezza di un disco bellissimo.