Ah! gli anni Novanta, l'era dorata dell'alternative
rock. Difficile raccontare quel tempo a chi non l'ha vissuto. I Superchunk
sono indubitabilmente figli anche loro di quegli strani giorni in cui
le major rovistavano nei garage di mezza America con in mano i libretti
degli assegni, nella gara per assicurarsi la next big thing. A
differenza di tanti altri, però, Matt McCaughan, Laura Ballance e soci
rimasero allora fedeli a un'etica do-it-yourself che li vide persino
abbandonare l'etichetta indipendente con cui pubblicarono i primi lp (la
Matador), dopo che quest'ultima ebbe firmato un accordo di distribuzione
con l'Atlantic, scegliendo di continuare a incidere e prodursi i dischi
in autonomia, cioè attraverso quella Merge Records che avevano fondato
quasi per scherzo nel 1989 e che negli anni riuscì a diventare un piccolo
baluardo dell'indie USA, meritevole nel supportare act di culto come Neutral
Milk Hotel e Magnetic Fields e finanche capace di spingere in classifica
alcuni dei nomi più interessanti del decennio successivo (Arcade Fire,
Spoon, M. Ward...).
Non male, per una band nata nelle cantine di Chapel Hill (North Carolina)
dalla passione di un gruppo di adolescenti e che è sopravvissuta con dignità
e coerenza fino ad oggi. Possiamo considerarli quasi come dei Green Day
che ce l'abbiano fatta (a non sputtanarsi...). C'è stata in realtà una
lunga interruzione, dieci anni in cui i membri storici della band hanno
ripreso fiato, ma da quando sono ritornati a incidere e pubblicare più
o meno regolarmente, nel 2010, il livello si è mantenuto sempre buono,
alternando routine di classe a sprazzi di memorabile ispirazione. L'ultimo
Wild Loneliness non fa eccezione: nasce come testimonianza
e reazione al tempo sospeso in cui abbiamo vissuto negli ultimi due anni
di pandemia e ripropone l’innata abilità di McCaughan e compagni di parlare
ai cuori e alle gambe con quei tre accordi ricombinati in tutte le variazioni
possibili su una ritmica diritta come un tram in corsa. Un compendio di
quell'idea di alternative rock che tiene i piedi nel punk anni Ottanta
e la testa nel power pop dei Settanta.
La lista transgenerazionale degli ospiti che sono passati a lasciare un
contributo varrebbe da sola a testimoniare la caratura e il rispetto che
i Superchunk si sono guadagnati sul campo: ci sono Norman Blake e Raymond
McGinley dei coevi e per tanti aspetti affini Teenage Fanclub, che prestano
le voci nel singolo ecologista Endless Summer
(la melodia più riuscita del lotto), "zio" Mike Mills nella r.e.m.-iana
(e quindi anche un po' byrds-iana) On the Floor, Kelly Pratt (Beirut)
che colora di fiati il Northern Soul di Highly Suspect, i gorgheggi
malinconici di Tracy Campbell (Camera Obscura) nella sognante This
Night, Andy Stack (Wye Oak) che spinge il suo sax su strade al neon
nella riflessiva Wild Loneliness, e Sharon Van Etten, che fa la
chanteuse da par suo nella ballata If You’re Not Dark. E ci scuseranno
quelli che abbiamo scordato di citare.
Un disco che probabilmente dirà poco alle giovani generazioni e che suonerà
inevitabilmente ma piacevolmente nostalgico ai sopravvissuti. Una dolceamara
madeleine da un tempo (irrimediabilmente?) perduto.