| | | | | Joseph
Arthur
The Ballad of Boogie
Christ
[Lonely
Astronaut/ Real World
2013]
www.josepharthur.com
File Under:
the soul ballad of Joseph Arthur
di
Fabio Cerbone (25/07/2013) | |
La grandeur sonora di Currency of Love, che
apre le danze del disco con uno svolazzo di archi, fiati e intrecci tra melodie
doo wop anni cinquanta e pop, è indicativa in qualche modo delle attuali ambizioni
di Joseph Arthur, il quale torna nell'alveo discografico della Real World
dopo anni di peregrinazioni, proponendo un progetto tematicamente complesso, eppure
da un punto di vista musicale molto diretto, quasi mainstream in taluni suoi passaggi
(lo sono certamente le ridefinizioni del suo stile in Saint
of Impossible Causes, o il soul rock fragoroso e radiofonico di It's
Ok to Be Young/Gone). Parte integrante di una temeraria trilogia che
dovrebbe prevedere un secondo capitolo per l'autunno e un suo completamento ideale
per l'anno prossimo, The Ballad of Boogie Christ scivola tra follia
da concept e redenzione, raccontando di un fantomatico avvento di Gesù Cristo
nella schizofrenica società del 21° secolo.
Tutto ciò potrebbe essere
anche semplicemente una sorta di alter ego dello stesso Arthur, la cui poetica
non è mai stata "limpida" da decifrare, ma certo ha dalla sua parte un fascino
indiscutibile proprio per la malinconia un po' scura dei testi e il contrasto
con gli orizzonti delle melodie. In questa direzione l'album offre tali e tanti
spunti da riassumere le diverse facce del songwriting di Joseph Arthur: c'è il
balladeer introverso e folk, il cesellatore di armonie pop, l'animo inquieto ed
elettrico del narratore, oggi persino il soulman dalla trame psichedeliche, come
si ostina a definire alcuni passaggi di questo lavoro lo stesso protagonista.
Partendo proprio da quest'ultima annotazione, si possono sottolineare le stratificazioni
di suono black e cori della stessa The Ballad of Boogie
Christ o ancora l'r&b nervoso, ritmico
e incalzante di Black Flowers, episodi che
ribadiscono quella ambizione di cui sopra: arrangiamenti mai banali, ridondanti
a tratti, sempre pronti a svelare qualche passaggio inedito. Ad esempio il piano
jazzy e l'intrigante atmosfera di I Used to Know How
to Walk on Water, uno dei vertici della raccolta, con tutta la sua
struggente fragilità e un finale che fa emergere delicatamente l'ospite Ben Harper
alla voce.
La capacità di lanciarsi tra questi umori contrastanti è garantita
dunque da uno stuolo di musicisti e collaborazioni di prima qualità, mai come
oggi funzionali però al disegno finale dell'autore: Jim Keltner, Garth Hudson,
le chitarre di David Immergluck (Counting Crows) e l'organo di Rami Jaffee (Wallflowres),
le voci di Juliette Lewis e Jenni Muldaur assecondano il direttore di orchestra,
confermando quel crinale meno buio e più vivace che aveva caratterizzato anche
le precedenti pubblicazioni di Arthur. Ecco alora la maggior immediatezza di Wait
for Your Lights, così come le rivisitazioni di uno stile riconoscibile
(in crescendo il finale con l'accopppiata Famous Friends
Along the Coast e All the Old Heroes), capace di unire sensibilità
sonore moderne e classicità da cantautore. Non a caso la presenza di brani già
rodati nella dimensione live, la lunga gestazione del disco e persino la rilettura
di I Miss the Zoo, che qui si apre alla sua
verbosità folk "dylaniana", sono tutti segnali di un lavoro pensato e calibrato
in ogni signola aspirazione.
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