Basia Bulat
Tall Tall Shadow
[
Secret City Records/ Audioglobe 2013]

www.basiabulat.com

File Under: You can close your eyes

di Gianfranco Callieri (11/11/2013)

Al primo album ci eravamo innamorati quasi tutti: per l'aspetto genuino, per la freschezza di un folk-rock da adolescenti col cuore in mano, per uno stile dove anche gli spigoli sembravano smussati dai soffi del vento di primavera. Nei pressi dell'opera seconda, invece, erano subentrati disillusione e irrigidimento: per canzoni sin troppo spoglie e accorate, per una certa monotonia di fondo, per la sensazione di assistere al ripetersi, come sempre meno avvincente, di una storia già vissuta con tutt'altro sentimento. È al terzo disco che la canadese Basia Bulat riesce a centrare completamente il bersaglio: non solo Tall Tall Shadow possiede, intatte, la spontaneità Oh, My Darling (2007) e la malinconia del successivo Heart Of My Own ('10), ma riesce a inscriverle in un'intelaiatura sonora complessa eppure mai invadente (anzi, sempre perfettamente al servizio delle canzoni), contrassegnata in proporzioni paritetiche da una ritrovata felicità di scrittura e da un'inedita voglia di sperimentare e mettersi alla prova per quanto riguarda gli arrangiamenti, mai così variegati benché, al tempo stesso, mai invadenti o artificiosi.

Impacchettato a sei mani dalla stessa Bulat, Tim Kingsbury e Mark Lawson (rispettivamente, bassista e produttore degli Arcade Fire), Tall Tall Shadow, pur non rinunciando a citare affettuosamente due veri e propri punti di riferimento formale come Joni Mitchell e Tracy Chapman (ispiratrici pressoché uniche di una delizia semiacustica intitolata Paris Or Amsterdam), costruisce le proprie suggestioni sulla base di un suono ricco di contrasti, sfumature e chiaroscuri. La chiave del cambiamento si trova nella foto di copertina, un bianco e nero quasi funereo dopo le immagini ora luminosissime ora bucoliche dei lavori precedenti, e subito dopo nell'efficace alternarsi fra rock quasi classico nello spirito di Natalie Merchant (la title-track, con una menzione di riguardo per i tamburi punkeggianti del fratello Bobby Bulat), incalzanti gioielli pop che ricordano da vicino la grinta melodica dei Fleetwood Mac di Stevie Nicks e Lindsay Buckingham (Wires, bellissima) e deviazioni di percorso tanto inattese quanto emozionanti e coinvolgenti (impossibile non lasciarsi trasportare, e pure commuovere un po', dal violino che trafigge il fondale elettronico di Someone).

L'essenzialità ritorna nel folk austero alla Josephine Foster di It Can't Be You, dove la Bulat ricorre soltanto al suo inconfondibile vibrato e all'accompagnamento del charango andino (una specie di ukulele), e nello spiritual moderno di Never Let Me Go, con otto voci diverse a congiungersi con l'autoharp della padrona di casa, ma ancora una volta si tratta di una scelta di eleganza e stile, non di un semplice arretramento verso la concisione tradizionalista degli esordi. Promise Not To Think About Love, dominata da fiati, percussioni e battimani, potrebbe essere il brano più accessibile della raccolta, The City With No Rivers, sinistra coda di synth distesa sul violoncello di Anissa Hart e la viola di Allison Stewart, quello più cupo e impegnativo. Oppure potrebbero essere le due facce di una stessa medaglia fatta di luci e ombre, di gioia e dolore, di fughe e ripensamenti. È presto per dire se Tall Tall Shadow, in futuro, sarà considerato quale simbolo di svolta nella carriera dell'artista. Ma non c'è bisogno di molto altro, sin da ora, per immaginare che lo ricorderemo come il disco in cui Basia Bulat ha imparato a esprimere tutte le sue anime, e, così facendo, a parlare alle nostre.


    


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