Il suo gruppo, o per meglio dire, duo, precedente, The Dutchess & The Duke, proponeva
un garage-folk sbucato dritto dritto dagli anni '60. Il suo gruppo attuale, i
Case Studies, si dedica a una particolare forma di country-rock, epigrafico
e narcolettico, nonché suonato ricorrendo a una strumentazione essenziale, concisa,
sempre e comunque vintage. Ma allora Jesse Lortz, eminenza grigia e barbuta di
entrambe le formazioni, è un misoneista, uno di quei tizi per natura sospettosi
di fronte a ogni cambiamento? Forse no, perché in fondo è partito raccogliendo
le ultime scie del punk di Seattle. Forse sì, perché prova talmente tanto disagio,
al cospetto del presente, da scegliere di ignorarlo. Anzi, più che ignorarlo,
lo dissemina di particolari inquietanti, ne suggerisce la povertà estetica alterandone
i connotati. L'immagine di copertina di This Is Another Life, per
esempio, opera di un grande artista del collage come il designer newyorchese Arturo
H. Medrano (trovate alcuni suoi lavori all'indirizzo convulsive.tumblr.com), è
bucolica? Essendoci un cavallo e un po' d'erba, sembrerebbe di sì. In realtà,
del cavallo c'è solo l'ombra (o il fantasma?), mentre sull'erba cammina una bambina
della quale, dettaglio che trasmette un pizzico d'inquietudine, non vediamo il
viso.
Le canzoni di Lortz, allo stesso modo dei loro involucri fisici
e sonori, funzionano come certi film del regista David Lynch (il cui nuovo album,
il secondo da titolare, dovrebbe uscire proprio per la Sacred Bones, la stessa
label dei Case Studies): prendono un luogo comune dell'immaginario, per Lynch
la tranquillità della provincia americana, per Lortz l'incedere sonnacchioso del
country-rock, e lo cospargono di allusioni sinistre, sfumature arcane e a volte
indecifrabili (benché sempre suggestive), segni contrastanti, tracce di nervosismo,
intonazioni ambigue. Questo spiega perché un album come This Is Another Life,
seguito migliore, più disteso, maturo e personale, del precedente The World Is
Just A Shape To Fill The Night (2011), di nuovo prodotto da Greg Ashley dei
Gris Gris, possa sembrare una lagna interminabile se ascoltato distrattamente.
Non vi assicuro non sembri una lagna anche a un ascolto più concentrato, specialmente
se non vi piacciono i primi National, e cioè la controfigura metropolitana dei
Case Studies (o viceversa); per quanto mi riguarda, però, la voce rettilinea di
Lortz (quasi un Michael Gira imbottito di psicofarmaci) e l'incedere limpido delle
sue canzoni, il suono vitreo del pianoforte, la delicatezza delle percussioni,
gli arpeggi vaporosi delle chitarre, tutti appoggiati su di una coltre di minuzie
musicali o testuali ogni volta spiazzanti, possiedono appunto l'intensità e l'originalità
di una pellicola di David Lynch.
Villain,
fra le tante, con la voce sempre magnifica di Marissa Nadler, potrebbe
essere una torch-song di ambientazione folk, con un sublime riff di sei corde
a sbriciolare il pathos dei cori che la animano. Ma non è l'unico episodio a distillare
urgenza espressiva da un'apparente deviazione lessicale: il rock-boogie dylaniano
di Driving East, And Through Her procede spedito
verso un bridge che non arriva mai (da cui la qualità ipnotica del pezzo), la
splendida From Richard Brautigan prova a esternare
una melodia pop quasi beatlesiana tramite lo slowcore acustico di Mark Kozelek
(trovando così una patina di irresistibile malinconia), House Of Silk, House
Of Sorrow sembra Kurt Vile, sì, ma riletto dagli Swans più classici, la struggente
You Say To Me, You Never Have To Ask (uno
dei capolavori assoluti di questa stagione) mette insieme la buonanima ruvida
e younghiana di Jason Molina con la sensualità di Leonard Cohen, e via di questo
passo. Se inventare mondi non sembra più possibile, forse si possono ancora trovare
e inventare i suoni, le parole, le immagini e le variazioni per raccontare il
nostro in un altro modo. This Is Another Life - titolo profetico! - è uno di quegli
album che ci riescono.