File Under:
garage blues rock di
Fabio Cerbone (16/02/2013)
Piccoli
Black Keys crescono, c'era da aspettarselo. Ora che la coppia delle meraviglie
Dan Auerbach - Patrick Carney ha deciso di evolvere il proprio sound verso un
groove di matrice soul rock e persino pop, era naturale che qualcuno si prendesse
la briga di proseguire l'opera più intrasingente del duo, ovvero sia quella sorta
di recupero delle dinamiche grezze dell'hard blues, lo stesso da cui erano partiti
con dischi come Thickafreakness e Rubber Factory. Non ne facciamo una colpa dunque
ai John The Conqueror, trio di Philadelphia, ma con due trapiantati dal
Mississippi, che macinando ritmi serrati e rock blues d'annata suonano se non
altro sinceramente rapiti.
Le basi affondano, come anticipato, nel Deep
South, e non poteva essere altrimenti: tra Jackson e la cittadella universitaria
di Oxford, Pierre Moore stringe un patto con il cugino Michael Gadner,
facendosi le ossa in svariate rock'n'roll band locali, prima di approdare al progetto
The Slack Republic, matrice punk ed educazione indie che al tempo non sembra ancora
essere scesa a patti con l'eredità blues dei nostri ragazzi. Quindi il trasferimento
sulla East Coast e la rifondazione del loro sound, a cominciare da una ragione
sociale, John the Conqueror, che si rifà esplicitamente allo schiavismo e all'immaginario
afro-americano più orgoglioso. Ad aggiungere curiosità giunge infine la leggenda
che Moore abbia imparato i tre accordi fondamentali da un senzatetto che dormiva
nello sgabuzzino di un'officina di riparazioni auto: quasi uno stereotipo fastidioso,
per quanto è stato sfruttato nel corso del tempo, anche se vale la pena concedere
un briciolo di buona fede all'etichetta (la stessa di Lee Bains III) per essersi
inventata o meno questa storiella.
La differenza (e la curiosità, se volete)
in fondo è rappresentata dalla voce black dello stesso Pierre Moore e dalle radici
della band fondata con il batterista Micheal Gardner, due ragazzi neri che giustamente
si riprendono tutto quello che gli spetta di diritto. Il resto viene di conseguenza
ed è una sequenza di feroci riff che stanno giusto a metà strada tra Led Zeppelin
(Southern Boy, la lunga jam finale 3
More) e i citati Black Keys (Lucille,
Say What You Want), fondamenta gospel soul e visioni di James Brown (quelle
che aprono il battito di I Just Wanna e ispirano
la ballata Time to Go) e ossessivi delta blues figli di Junior Kimbrough
(All Alone). Aggiungeteci magari il ricordo
dei primi Free con Paul Rodgers e avrete il perfetto quadro della situazione.
Arrivano tardi all'appuntamento, questo è innegabile, ma hanno un tiro micidiale
e tanto basta al momento per salvargli la pelle.