Crime & The City Solution
American Twilight
[Mute/ Self 2013
]

www.crimeandthecitysolution.com


File Under: dark wave

di Gianuario Rivelli (11/04/2013)

Sarà che dai ritorni di fiamma ci si aspetta sempre troppo. Sarà che dagli anni 80 ad oggi di acqua sotto i ponti ne è passata tanta e che 22 anni di silenzio discografico sono più di un’era geologica. Sarà che il suo gemello diverso Nick Cave è appena riapparso con un disco straordinario. Saranno tutte queste cose messe assieme, ma quando si è sparsa la voce che Simon Bonney avrebbe ridato l’ennesima vita ai Crime and The City Solution, tutti auspicavano mirabilie. Dalla premessa avrete già capito che American Twilight, frutto dell’ennesima ripartenza della band che vide la luce più o meno trentacinque anni fa a Sidney, finisce per deludere cotante aspettative. Non un brutto disco, per carità, ma un’occasione sprecata, un rimanere a metà del guado per un gruppo che è sempre stato oggetto di un culto sotterraneo alimentato dalla parabola anomala (lunghi silenzi, trasferimenti da un continente all’altro, cambi di formazione), ma soprattutto dal post punk decadente, impastato di blues e di tensione incombente che si sublimò in Room of lights (1986) e Shine (’88).

Al centro di tutto c’era e c’è sempre lui, l’ineffabile Simon Bonney che ha deciso di togliere la polvere alla vecchia e blasonata sigla e di darle nuova dimora a Detroit, luogo programmatico per mettere in musica la sua personale elegia del sogno americano. Con lui i reduci del periodo berlinese, la violinista nonché consorte Bronwyn Adams e il chitarrista Alexander Hacke (pilastro degli Einstürzende Neubauten) e le new entry David Eugene Edwards (ben noto ai nostri lettori quale leader di 16 Horsepower e Woven hand), Jim White (batterista dei Dirty Three), Troy Gregory (basso), Matthew Smith (moog e tastiere) e Danielle De Picciotto. Le atmosfere cupe, i rintocchi solenni delle chitarre e il clima drammatico continuano a contraddistinguere i Crime and The City Solution del nuovo millennio, ma il baricentro si è spostato verso un rock dolente, talvolta psichedelico e talvolta solenne, manifesto del disgregarsi delle relazioni, delle disuguaglianze sociali e dell’egoismo portati dalla recessione di questi anni.

L’inizio è più che incoraggiante: le rasoiate ben assestate del singolo Goddess e l’incedere al contempo solenne e isterico di My love takes me there, con i proverbiali riverberi e una traccia melodica che sfocia sul finale in un coro addirittura pacificato fanno presagire quel che poi non sarà. Da lì in poi Bonney, con l’eccezione della rutilante title track (sembra un pezzo del miglior 'Paisley Underground' con risvolti funkeggianti), perde il bandolo della matassa e non riesce ad amalgamare ingredienti potenzialmente esplosivi (il desert rock con arrangiamento epico di Domina, il blues schizzato di Riven man, lo sferragliare marziale di The colonel). Il finale apocalittico della conclusiva Streets of West Memphis fa calare il sipario lasciando nelle cuffie la sensazione che il sorprendente ritorno dei Crime and The City Solution sia un’incompiuta: l’urgenza creativa e l’indiscutibile classe producono un disco a tratti affascinante ma discontinuo, talvolta potente ma anche ondivago e confuso. Un reboot riuscito a metà.


     


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