Sarà
che dai ritorni di fiamma ci si aspetta sempre troppo. Sarà che dagli anni 80
ad oggi di acqua sotto i ponti ne è passata tanta e che 22 anni di silenzio discografico
sono più di un’era geologica. Sarà che il suo gemello diverso Nick Cave è appena
riapparso con un disco straordinario. Saranno tutte queste cose messe assieme,
ma quando si è sparsa la voce che Simon Bonney avrebbe ridato l’ennesima vita
ai Crime and The City Solution, tutti auspicavano mirabilie. Dalla premessa
avrete già capito che American Twilight, frutto dell’ennesima ripartenza
della band che vide la luce più o meno trentacinque anni fa a Sidney, finisce
per deludere cotante aspettative. Non un brutto disco, per carità, ma un’occasione
sprecata, un rimanere a metà del guado per un gruppo che è sempre stato oggetto
di un culto sotterraneo alimentato dalla parabola anomala (lunghi silenzi, trasferimenti
da un continente all’altro, cambi di formazione), ma soprattutto dal post punk
decadente, impastato di blues e di tensione incombente che si sublimò in Room
of lights (1986) e Shine (’88).
Al centro di tutto c’era e c’è sempre
lui, l’ineffabile Simon Bonney che ha deciso di togliere la polvere alla
vecchia e blasonata sigla e di darle nuova dimora a Detroit, luogo programmatico
per mettere in musica la sua personale elegia del sogno americano. Con lui i reduci
del periodo berlinese, la violinista nonché consorte Bronwyn Adams e il chitarrista
Alexander Hacke (pilastro degli Einstürzende Neubauten) e le new entry David
Eugene Edwards (ben noto ai nostri lettori quale leader di 16 Horsepower e
Woven hand), Jim White (batterista dei Dirty Three), Troy Gregory (basso), Matthew
Smith (moog e tastiere) e Danielle De Picciotto. Le atmosfere cupe, i rintocchi
solenni delle chitarre e il clima drammatico continuano a contraddistinguere i
Crime and The City Solution del nuovo millennio, ma il baricentro si è spostato
verso un rock dolente, talvolta psichedelico e talvolta solenne, manifesto del
disgregarsi delle relazioni, delle disuguaglianze sociali e dell’egoismo portati
dalla recessione di questi anni.
L’inizio è più che incoraggiante: le
rasoiate ben assestate del singolo Goddess
e l’incedere al contempo solenne e isterico di My love
takes me there, con i proverbiali riverberi e una traccia melodica
che sfocia sul finale in un coro addirittura pacificato fanno presagire quel che
poi non sarà. Da lì in poi Bonney, con l’eccezione della rutilante title track
(sembra un pezzo del miglior 'Paisley Underground' con risvolti funkeggianti),
perde il bandolo della matassa e non riesce ad amalgamare ingredienti potenzialmente
esplosivi (il desert rock con arrangiamento epico di Domina,
il blues schizzato di Riven man, lo sferragliare marziale di The
colonel). Il finale apocalittico della conclusiva Streets
of West Memphis fa calare il sipario lasciando nelle cuffie la sensazione
che il sorprendente ritorno dei Crime and The City Solution sia un’incompiuta:
l’urgenza creativa e l’indiscutibile classe producono un disco a tratti affascinante
ma discontinuo, talvolta potente ma anche ondivago e confuso. Un reboot riuscito
a metà.