Iron & Wine
Ghost on Ghost
[
Warner
2013]

www.ironandwine.com


File Under: indie pop singer

di Fabio Cerbone (26/04/2013)

Che la svolta quasi temeraria d Kiss Each other Clean, soprattutto se paragonata alla timidezza acustica degli esordi, non fosse un semplice fuoco di paglia o peggio una velleitaria operazione di arroganza artistica, era chiaro a tutti. Ghost on Ghost è il seguito che tutti, esclusi i nostalgici della malinconia folk ad ogni costo, si potevano aspettare: e Samuel Beam, in arte Iron & Wine, non si è lasciato sfuggire l'occasione per alzare nuovamente il tiro o per meglio dire per rifinire i dettagli e smussare tutti gli spigoli, trovando in queste dodici canzoni altrettanti stimoli per ampliare ulterioremente lo spettro della sua poliedrica musica. È interessante e al tempo stesso bizzarro che Ghost on Ghost sia stato semplicemente definito da più parti come il suo disco "pop", la faccia più levigata rispetto all'austero predecessore: certo non mancano affatto segnali forti e chiari in tale direzione, melodie e coretti che affondano in una estasiata California d'altri tempi (gli strascichi dei Beach Boys che di tanto in tanto riaffiorano, passati magari al setaccio degli Steely Dan, come accade in The Desert Babbler e nella più eterea Joy), oppure leggiadrie degne di Belle & Sebastian (la deliziosa marcetta retrò di Graces for Saints and Ramblers) e persino codazzi country per archi, piano e pedal steel degni di Elton John (la dolcissima Baby Center Stage).

Eppure le spinte strumentali del nuovo album, ancora una volta sotto la direzione produttiva di Brain Deck, sono tali e tante che una semplice definizione pop sarebbe limitata: con una squadra di musicisti abbondante e partecipe, una serie di imput che allegeriscono e contemporaneamente aprono gli orizzonti del songwriting di Iron & Wine, Ghost on Ghost è un disco dove alcune sofisticazioni soul anni 70, entusiasmanti divagazioni jazzy e un intellignete utilizzo di archi e fiati (curati da Rob Burger del Tin Hat Trio) emergono di traccia in traccia, spargendo umori di abbondante black music. È prorpio il contrasto fra questa calda matrice nera e la voce suadente di Beam a creare la peculiare caratteristica dell'album, che richiede più ascolti per entrare sotto pelle, per schiudersi infine in tutta la sua magia, anche un po' kitsch se la cosa non vi terrorizza.

Di primo acchito arrivano forse le più familiari costruzioni di Winter Prayers e Caught in the Briars, ponti lanciati verso il passato di album quali The Sheperd's Dog e del citato Kiss Each Other Clean per non perdere del tutto la bussola, ma in seguito ad affascinare sono soprattutto le dense inflessioni notturne di una Low Light Buddy of Mine che sembra uscita dalla penna del Joe Henry di Tiny Voices (stesso terreno tra canzone d'autore confessionale e raffinate parentesi jazz), o ancora il bellissimo crescendo armonico di Grass Windows, sempre segnata dalla presenza di sax e tromba, per non parlare della densa Singers and the Endless Song, un call & response tra voci e fiati dalla chiara matrice funky, e infine della strepitosa Lovers' Revolution, sinuosa e cinematica come non mai, con un bellissimo lavorio tra sezione ritmica, voci, piano e sax e un intermezzo esplosivo che pare un'ode al Charles Mingus più fremente dell'epopea hard bop. Un azzardo, un altro grande disco signor Beam.


    


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