Mark Kozelek & Desertshore
Mark Kozelek & Desertshore
[
Caldo Verde 2013]

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File Under: La cicatrice intérieure

di Gianfranco Callieri (24/10/2013)

Mark Kozelek, frontman e compositore degli indimenticabili Red House Painters e dei Sun Kil Moon, nonché titolare di una ormai sterminata discografia solista, è uno di quegli artisti che si amano o si odiano senza mezzi termini. Persino chi lo ama (compreso chi scrive) si sarà spazientito nell'apprendere di un'altra nuova uscita, la quarta (!) del 2013, a suo nome, ma attenzione: a dispetto di qualsiasi sacrosanto rimprovero di sovrapproduzione possiate muovergli, Mark Kozelek & Desertshore, accreditato al nostro e al gruppo formato da Phil Carney (ex chitarrista dei RHP), Mike Stevens (batterista dei SKM) e Chris Connolly (pianista di estrazione classica), è il miglior disco firmato da Kozelek da dieci anni a questa parte, dai tempi, cioè, del primo album dei Sun Kil Moon, il sontuoso Ghosts Of The Great Highway del 2003. Una parte del merito va senz'altro ascritta al suono dei Desertshore, semplicemente perfetti nel costruire, intorno al consueto impianto slowcore delle canzoni di Kozelek (qui regolarmente impegnato al basso), un'architettura paziente di rintocchi, sospiri, oscillazioni ritmiche in chiave jazz e sporadiche accelerazioni rockiste.

Se Kozelek è sempre stato un artista della ripetizione, del ritorno assillante a certe intuizioni e certi ambienti sonori, i Desertshore dimostrano di saperne accompagnare le ossessioni formali e tematiche con tutte le emozioni, i micro-film, le sfumature, le passioni e i sussurri giusti. In Livingstone Bramble, dove Kozelek, ispirato dalla visione notturna di un match dell'omonimo pugile contro Boom Boom Mancini, prende a riflettere sui suoi chitarristi preferiti (Robert Fripp, Johnny Marr, Malcolm Young, Neil Young, Jimmy Page, Jeff Beck, Steve Vai, Kirk Hammett) e su quelli a suo parere sopravvalutati (Jay Farrar, Derek Trucks, Eric Clapton), concludendo peraltro con l'affermazione di odiare Nels Cline dei Wilco non si capisce se per invidia o contrarietà estetica, i Desertshore si spingono con convinzione e calore verso una sconvolta cavalcata elettrica alla Crazy Horse (con tanto di vera e propria imitazione, da parte di un ispirato Carney, degli assolo contorti e squillanti dello stesso Cline), mentre in altri momenti lo spessore del suono, rilassato, catatonico eppure ricco di dettagli e soluzioni imprevedibili, devia con matematica precisione verso le rarefazioni del post-rock (Katowice Or Cologne, Don't Ask About My Husband). Se a You Are Not Of My Blood non serve altro, per suggerire un universo arcaico di incubi e sofferenze, se non la seconda voce ipnotica di Alan Sparhawk dei Retribution Gospel Choir, nell'ultima, devastante Brothers l'intrecciarsi di pianoforte, tastiere liquide e cori in contralto è sufficiente per conferire alla canzone - un ricordo commosso del padre e dei suoi fratelli - potenza espressiva e narrativa sconcertante.

Merito dei Desertshore, certo, e merito ancora una volta dei testi di Kozelek, come sempre penetranti, confessionali, disarmanti per sincerità e candore autobiografico, ma anche buffi e divertenti in modo fino a oggi sconosciuto. Il che non significa Kozelek non sia di nuovo smarrito (e noi con lui) nel suo mondo interiore di ricordi e rimpianti: stavolta tra i fantasmi del passato ci sono lo Steve McQueen di Papillon (da cui il titolo della canzone, Hey You Bastards I'm Still Here) e il famigerato Anton LaVey, occultista e fondatore della Chiesa di Satana, qualche ragazza di cui è rimasta soltanto una fotografia e l'amico Jason Molina, evocato nella bellissima Sometimes I Can't Stop. Significa però che ha trovato un altro modo, più efficace e non meno onesto, per spezzarci il cuore e al tempo stesso offrirci uno straccio di consolazione, di condivisione, come accade quando in Tavoris Cloud, riflettendo sulla morte di un altro amico musicista (Tim Mooney degli American Music Club), sputa le parole che sono il motivo per cui continuiamo a comprare i suoi dischi: "Sono grato per il tuo amore", dice, rivolgendosi al conoscente scomparso. "Ma all'età di 46 anni mi sento ancora come un ragazzino incasinato che non riesce a spiegarsi nulla".



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