Low
The Invisible Way
[Sub Pop
2013]

www.chairkickers.com


File Under: (s)low motion

di Yuri Susanna (01/04/2013)

Eccoci qua, a scrivere di un nuovo disco dei Low. Chi l'avrebbe detto, 20 anni fa, che la band di Duluth sarebbe sopravvissuta ad una scena - chiamatelo slowcore, o sadcore se preferite (eventuali differenze, se ci sono, mi sono sempre sfuggite) - che pareva destinata a spegnersi nel proprio immobile languore dopo avere attraversato gli anni '90 incarnando il volto complementare (e sussurrato) dell'urlo di disagio del grunge. Non si può dire che i Low non ci abbiano provato, a grattarsi via dalle scarpe lo stigma di un genere che per natura, e ancor più per vocazione, non eccelle in avventurosità e varietà di soluzioni. Gli anni a cavallo della metà del decennio scorso li hanno visti indaffarati in significative deviazioni di percorso - del resto, la scelta di accoppiarsi al produttore David Fridman (membro fondatore dei Mercury Rev) non poteva che portare da quelle parti - sfociate in un paio di dischi (The Great Destroyer, 2005 e Drums and Guns, 2007) tra i più interessanti ma anche tra i più eretici del loro catalogo.

C'mon, l'album del 2011, suonava comunque già come un ritorno a casa, ad atmosfere sognanti e dilatate, con in più uno stock di canzoni che - almeno dal punto di vista delle soluzioni melodiche - erano tra le più riuscite e "canticchiabili" (più o meno) della storia della band. The Invisible Way si riallaccia a quella ritrovata ortodossia, a quella voglia di sapori noti, già masticati, facendo sorgere il sospetto che la carta della collaborazione con Jeff Tweedy (c'è lui in cabina di regia) sia stata giocata più per un'esigenza promozionale che per una reale spinta artistica. In sostanza, non ci sembra di scorgere alcuna "wilkizzazione" del suono Low in queste 11 nuove composizioni (volendo proprio spaccare il capello in quattro, possiamo anche ammettere che il finale compostamente rumorista di On My Own ha qualche ascendenza con certe analoghe trame di Yankee Hotel Foxtrot, ma niente di più). C'è invece un'aria familiare che rende queste rarefatte "ballate in crescendo" parenti prossime delle prove più classiche del gruppo (in particolare i primi dischi del periodo Kranky, Secret Name e Things We Lost in the Fire).

Tra chiaroscuri, riverberi di chitarre e armonie ripetute come litanie, queste canzoni lottano con il vuoto che le avvolge - esistenziale prima che sonoro, verrebbe da dire - muovendosi con apparente, inoffensiva gracilità, ma scoperchiando latenti tensioni sottocutanee. "You could always count on your friends to get you high, that's right", sono le prime parole che ascoltiamo in Plastic Cup. Ma un paio di versi dopo scopriamo che "Now they make you piss into a plastic cup, and give it up". Solo la qualità della registrazione non è più quella di 15 anni fa: gli strumenti risuonano con nitore, senza incrostazioni low-fi (la chitarra acustica, in particolare). Inoltre, Alan Sparhawk lascia più volentieri il proscenio a Mimi Parker - la batterista canta 5 canzoni su 11, privilegiando i brani più "mossi", come So Blue e Just Make It Stop. Il livello di scrittura è forse inferiore a C'mon, almeno sul piano della capacità di presa immediata, ma il tempo saprà anche stavolta inoculare lentamente la virulente dolcezza di queste canzoni, fino a fare entrare in circolo queste melodie nate come colonna sonora di un tempo sospeso, in dolorosa attesa dell'oblio. Che altro si può chiedere a un disco dei Low?

    


<Credits>