Cass McCombs
Big Wheel and Others
[
Domino/ Self 2013]

www.cassmccombs.com

File Under: ventidue pezzi (non sempre) facili

di Yuri Susanna (17/12/2013)

Per inquadrare la personalità di Cass McCombs - tra i songwriter più sguscianti della sua generazione; e stiamo parlando di una generazione che ha fatto dell'incatalogabilità una bandiera ai limiti del cliché (i nomi? Conor Oberst, Sam Beam, Will Oldham...) - per inquadrare McCombs, dicevamo, torna utile raccogliere i segnali sparsi nella sua produzione recente. Il folk-rock di protesta di Bradley Manning, ad esempio, un brano di ispirazione dylaniana del 2012 dedicato al noto informatico militare accusato di alto tradimento ("Bradley, know you have friends, though you're locked in there"), ci parla di un autore convinto che la pop music possa tuttora rivestire un ruolo di coscienza critica. Ancora più significativi sono i tre estratti dal film Sean (1969) - un documentario di Ralph Arlyck su un bambino di quattro anni cresciuto tra gli hippy di Haight Ashbury - piazzati lungo la scaletta di questo doppio album Big Wheel and Others (il settimo, nel ruolino del suo autore). La voce di Sean che discute di Dio ("There's no God around"), dei pellerossa ("The whole world is the Indians' world, because they were here first") e dei poliziotti ("Do you think we need police?" "No") funziona da innocente controcanto alle vignette di un'America disperata e cinica, popolata di eroi grotteschi e, al fondo, fragili, delle canzoni di McCombs.

Il folksinger di Concord emana quest'aura da beautiful loser, tipica del cinema americano della prima metà dei Settanta, un hobo fuori tempo massimo, spinto ai margini dell'American Dream. Non a caso la sua biografia racconta di una vita nomade, di notti passate a dormire in vecchie auto e di viaggi in Greyhound. Le sue visioni, la sua musica, non sono che l'ultimo capitolo di una mitografia (un racconto, cioè, capace di interpretare la realtà e di inciderne sull'immaginario; un mito a cui però è negata qualsiasi dimensione epica) che parte dal Joe Buck di Midnight Cowboy e dal Robert Dupea di Cinque pezzi facili, passando per i drop out descritti nei film di Hellman (Strada a doppia corsia) e Schatzberg (Lo spaventapasseri). Anche l'idea di un doppio album è un anacronismo che riporta a quegli anni lì, su per giù. La musica, poi, non fa nulla per suonare moderna, e fa anche poco per suonare vintage in senso modaiolo e furbo.

Piuttosto, trova un punto di equilibrio tra il raccoglimento verso le radici settantesche (Big Wheel, sporca di blues e polvere del deserto; Angel Blood: ricami di lap steel sul tessuto di malinconie country cosmiche; Aeon of Aquarius Blues, memorabile folk song à la Townes Van Zandt; Honesty is No Excuse, ovvero la cover dei Thin Lizzy che non ti aspetti) e le piroette centrifughe verso un mondo indie/alternative trattato con brusca condiscendenza (There Can Be Only One declina quella psichedelia scazzata che fa la fortuna di Kurt Vile; Satan is My Toy, uno space-rock avvolto a un groove drogato e funky, sa di Primal Scream; It Means a Lot suona come una parodia della recente svolta smooth-jazz di Iron & Wine). Le due versioni di Brighter, una più country-soul, l'altra (con la voce della compianta Karen Black, l'indimenticata Rayette di Cinque pezzi facili) più pop-oriented, epitomizzano i due poli di questo equilibrio. Ammesso che gli importi qualcosa, McCombs potrebbe passare per l'anti-Wilson (nel senso di Jonathan). Niente effetti speciali, niente lavoro in laboratorio sui suoni per ricreare "in provetta" il profumo del passato. Solo una ventina di canzoni, magari scorbutiche e, a volte, sfocate, magari anche un po' irritanti (Everything Has to Be Just-so si trascina per 9 minuti, e almeno 6 sono di troppo). Ma tutte, alla fin fine, con qualcosa di interessante da dire.


    


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