Al sassone Dave McPherson i giochi di parole piacciono parecchio. Be',
a chi non piacciono? Dreamoirs, per esempio, neologismo dove si
incrociano "dreamers", sognatori, e "boudoirs", salotti, diventa quindi "salotti
per sognatori": titolo azzeccato, per un disco. Nell'ambito delle canzoni, invece,
abbiamo prima un ribaltamento grafico dell'aggettivo "impossible", impossibile,
che diventa I'm Possible, ovvero "sono possibile"
(possibile, sì, ma anche, di conseguenza, incerto), poi un acrobatico Ambivert
Melanconnoisseur, con "ambivert", ambiverso, a posizionarsi fra "estroverso"
e "introverso", "melanconnoisseur" a sposare "melancholy", malinconia, e "connoisseur",
esperto, per sfornare un inedito "ambivalente intenditore della malinconia". Gli
incastri fra sostantivi non finiscono qui, ma gli esempi possono bastare. A questo
punto, chi non ha già ceduto alla tentazione di fracassare il cd sotto un incudine
vorrà però chiedere al McPherson se costui ha ritenuto di confezionare un album
o uno svago enigmistico per citrulli. In realtà, benché il ragazzo provi a farsi
notare in modo forse un po' ingenuo, Dreamoirs risulta essere molto più interessante
e sensato del suo titolo, o dei titoli delle sue canzoni.
McPherson fa
parte del gruppo degli InMe, band britannica di alternative-metal (così afferma
Wikipedia, non chiedetemi cosa significhi), in pratica un clone intontito dei
già inespressivi Silverchair, e negli ultimi tempi sia lui sia il suo gruppo hanno
scoperto le virtù di PledgeMusic.com, una delle tante piattaforme di crowdfunding
sparse per la rete. Questo ha consentito agli InMe di continuare a rimpolpare
di capitoli una carriera evidentemente non floridissima sotto il profilo economico,
e a McPherson di tentarne un'altra, peraltro nelle impegnative vesti di one-man
band, contrassegnata da un diverso profilo di stile. Dreamoirs è, dopo The Hardship
Diaries (2011), diversi extended casalinghi e l'idea assurda di registrare una
canzone nuova e diversa per ogni giorno del 2013 (vedremo come andrà finire),
il suo secondo album da titolare e il secondo all'insegna di un pop-folk aggressivo
e muscolare, sulla scia di Frank Turner, spesso inscenato sullo sfondo di solenni
paesaggi orchestrali attraversati da cori stentorei (un po' fastidiosi, tanto
sono esagerati, nello svolgimento della citata Ambivert). L'origine acustica del
suono resta in diversi momenti incontaminata, per esempio nei primi minuti della
drammatica Kingdom, ma a convincere di più
sono proprio le parentesi in cui McPherson, giocandosi il tutto per tutto con
l'innocenza di un esordiente qualsiasi, butta in mezzo alle sue canzoni qualunque
cosa gli passi per la testa, appunto cori, assoli, tamburi battenti, archi a profusione,
fraseggi di synth e chi più ne coglie più ne sottolinei.
Il risultato,
oltre che al folk-rock da stadio di Turner, richiama una versione acustica ma
grintosissima di Kooks o Rooney, una specie di Ryan Adams in parata post-grunge,
un intreccio di chitarre unplugged e melodie power-pop forse brutto da definire
e nondimeno molto divertente da ascoltare. Dietro l'orrendo titolo (ancora!),
Relics Of Don Quixote racchiude una linea
melodica degna dei Counting Crows, mentre l'ultima Mortals
- il brano più suggestivo - trapianta nei paesaggi grigi dell'Essex, aggiungendovi
una tonnellata di pop e con ottimi risultati, lo spleen rabbioso e doloroso dei
Bright Eyes. Certo, l'insieme, se si vuole, non solo sembra, è fragile, alle volte
incerto, farraginoso, pure già sentito. Dreamoirs, però, possiede anche quell'irruenza
e quell'entusiasmo che, senza renderlo imperdibile, spingono ogni volta, al termine
di ciascun ascolto, a riprenderlo in mano.