Miles Nielsen
Presents The Rusted Hearts
[
Rotown records  
2012]

milesnielsen.com
www.myspace.com/milesnielsen


File Under: folk rock, power pop

di Fabio Cerbone (07/02/2012)

Preceduto sempre da quell'ingombrante grado di parentela - ne avevamo parlato anche in occasione dell'omonimo esordio del 2010 - Miles Nielsen sgomita e coltiva con pazienza il suo orticello fatto di ballate folk rock agrodolci e sognanti pop chitarristici. Il padre resta sempre lo stesso, quel Rick Nielsen con il quale il piccolo Miles racconta di avere passato interi periodi dell'infanzia sul tour bus dei Cheap Trick. Essendo questi ultimi una vera e propria istituzione del rock collegiale e più imparentato con il linguaggio del cosiddetto power pop, leggenda tutta americana purtroppo mai troppo conosciuta alle nostre latitudini, è logico che Miles ne subisse il fascino, pur senza diventarne un epigono a tutti gli effetti. Scrollati di dosso dunque facili accostamenti, The Rusted Hearts prosegue un persorso personale avviato con il precedente album, cercando semmai di saldare maggiormente il rapporto con la band, tanto è vero che quel "Miles Nielsen presents" appiccicato a forza prima del titolo sembrerebbe sottolineare il lavoro di un collettivo, lì dove il quintetto che lo accompagna diventa un'entità unica con le sue stesse composizioni.

Lo sforzo è lodevole e certamente la coesione si riflette sul repertorio: meno animato da quegli intenti Americana e da folksinger che di tanto in tanto spuntavano nel citato debutto, The Rusted Hearts è un disco più diretto, irrequieto, certamente elettrico (ed eclettico) e lo dimostra il trittico iniziale, dalla beatlesiana title track alla progressione di The Grain e Dear Kentucky (You're Killing Me), quintessenza di una ballata dal tipico timbro pop chitarristico. Disco di genere fin qui, ma che bene si accoda allo spirito di "gente minore" e appassionata come Matthew Sweet, Peter Horsapple (Db's), Marshall Crenshaw e altri svariati misconoscuti eroi di uno stile esattamente a metà strada fra Bob Dylan, Elvis Costello e i Big Star. Tutto ciò giusto per dare le coordinate di un album breve, piacevole nella sua lezione di recupero di quello che un tempo era bollato appunto come college rock (ci sono anche Disease e Overrated a ribadirlo in seguito), ma anche un po' indeciso sulla rotta da mantenere.

Difatti, da metà scaletta in poi The Rusted Hearts si fa più avventuroso: in sé un'intenzione apprezzabile, che tuttavia passa da momenti folk un po' straniti (The Crown) a parentesi pop tra l'ambizioso e lo stucchevole (Cold War, Sirens), senza contare l'atmosfera jazzy e vagamente vaudeville, i clarinetti e il finale per archi di Maria e All Time Loser, che forse sarebbero piaciute tanto a Paul McCartney, ma dentro il contesto più rock e frizzante che le precede diventano un diversivo poco comprensibile. Il dono di famiglia non manca insomma, ma qualche volta tenere a freno le proprie smanie non è un peccato mortale, semmai il segno di una forte maturità.



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