California? No, Minneapolis. Eppure, avremmo scommesso sulla provenienza dalla
costa Ovest di questo trio, nonostante il nome rubato a Bob Seger. Ma forse ci
inganniamo anche su questo, forse si sono ispirati all'omonimo film di Arthur
Penn (in Italia distribuito come Bersaglio di notte, e cercatelo perché merita).
Di una cosa però siamo abbastanza certi: Colored Emotions suona
come una scheggia di psichedelia conficcatasi nel fianco dell'indie music contemporanea
direttamente dalla West Coast di fine anni '60. Non che sia chissà quale novità,
intendiamoci: da Jonathan Wilson ai Woods, fino all'exploit dei Foxygen, di recente
una certa "estetica da Laurel Canyon" è tornata di moda, tanto che anche dei precursori
come i Beachwood Sparks si sono riformati nel tentativo di monetizzare il momento
favorevole. Il fatto che i Night Moves provengano dalle Twin Cities - tra
le temperature più basse di tutte le regioni metropolitane degli States, vale
a dire un'idea di America quanto mai lontana dal sole della California e dalle
vestigia della Summer of Love - testimonia che la geografia (in musica, almeno)
è più un fatto di spirito che di meridiani e paralleli.
Comunque, ricostruendo
la vicenda che ha portato alla distribuzione dell'album da parte della attiva
e trendy Domino Records dopo che Colored Emotions, nella sua prima spartana veste,
era stato originariamente reso disponibile dalla band in download gratuito, scopriamo
che il disco è stato rifinito e in parte reinciso (numerose overdubs e nuove parti
di batteria), indovinate dove? Ovviamente a Los Angeles, dove il trio è stato
affidato alle cure dell'esperto Thom Monahan (Devendra Banhart, Vetiver). Tutto
torna, dunque. Date le premesse potete immaginare cosa aspettarvi da queste canzoni:
riverberi, armonie e chitarre lisergiche come se piovesse. E infatti. Headlights
chiarisce il concetto subito: la voce di John Pelant, al limite del falsetto,
si fa cullare dalle pulsazioni di basso e batteria, mentre la chitarra disegna
trame oniriche e la tastiera apre squarci spaziali. Intanto un'armonica vibra
lontano, sullo sfondo. E' lo stampo da cui prende forma il resto di un disco che
dura poco più di 30 minuti, come i vecchi vinili dei Moby Grape (il paragone non
è casuale).
Non pensate però a un'uniformità che appiattisce ogni cosa:
le dieci tracce sono attraversate da inquietudini blues, svolte avant-folk (magari
nella stessa canzone, come accade in Horses),
piroette country (Country Queen, appunto,
ma anche l'aria western di Old Friends) e cambi di marcia space-rock (Only
A Child) che rendono l'ascolto meno prevedibile di quanto si crederebbe.
La title-track sembra poi gettare un ponte sul presente, verso l'indie-folk contemporaneo
(potrebbe essere tranquillamente un brano dei Grizzly Bear). Su tutto, c'è la
capacità di scrivere una canzone partendo dalla melodia: abilità banale ma che
li distingue da molti colleghi, troppo occupati dall'elaborazione di un suono
per preoccuparsi delle canzoni. Un debutto intrigante. La stampa inglese, che
non ha perso il vizio di mettere sugli altari qualunque scalzacane uscito dalle
cantine di Manchester o Londra ma con gli yankees quando può ci va giù pesante,
ha bocciato il disco definendolo un lavoro che "manca di immaginazione". Una garanzia
in più sulla sua qualità, a ben vedere.