Rose Windows
The Sun Dogs
[
Sub Pop 2013]

www.subpop.com/artists/rose_windows


File Under: …like it was 1969 again

di Yuri Susanna (04/09/2013)

Quando iniziai a scrivere per Rootshighway - più o meno sei anni addietro - la parola che mi capitava di ripetere più sovente nelle recensioni era "Ryan Adams" (sì, ho barato: si tratta di due parole. E nomi propri, per giunta). Oggi come oggi, se dovessi indicare il termine cui ricorro più di frequente, a naso scommetterei su "vintage" e altri vocaboli semanticamente affini - chessò, "modernariato", "citazionismo", "postmoderno" (quest'ultimo è come l'aceto balsamico, va di moda metterlo su tutto). Segni dei tempi. Certo, la riproposizione quasi filologica della musica del passato è un fenomeno che non riguarda solo il mondo dell'Americana, e meriterebbe un approfondimento che, mi perdonerete, non ho la possibilità di affrontare in questa sede (ammesso e non concesso che abbia la competenza e la necessaria lucidità critica per farlo). Di fronte a The Sun Dogs, esordio dei Rose Windows da Seattle, un disco partorito nel 2013 ma che potrebbe tranquillamente recare sulla copertina la dicitura "(c) 1969" - non mi restano quindi molti modi di affrontare la questione.

A monte dei ragionamenti spiccioli di sociologia musicale rimane da stabilire se il disco è "buono" o "no buono" (per citare le categorie estetiche del filosofo Andy Luotto). Io proporrei di fingere che l'album sia realmente uscito alla fine dei '60 e poi chiedersi: "avrebbe qualche chance di farsi ascoltare, se comparisse negli scaffali a fianco di After Bathing at Baxter's o The Family That Plays Together?". La risposta per me è affermativa. Non che The Sun Dogs sia paragonabile ai dischi summenzionati (magari...). Ma avrebbe potuto essere un più che discreto prodotto di "seconda fila" di quella stagione di fughe acide e vibrazioni psichedeliche. Un onesto derivato, insomma. Se c'è gente che oggi sbava dietro le ristampe di Ultimate Spinach o Mandrake Memorial, direi che non c'è niente di male ad ascoltare questi ragazzi (un collettivo più che una band: sette membri fissi, più altri che ruotano per assecondare le visioni del post-rocker pentito Chris Cheveyo, chitarrista e principale compositore) che parlano più o meno lo stesso linguaggio, con scioltezza e gusto. Ok, per loro si tratta di stilemi acquisiti di seconda, se non di terza, mano. Ma non stiamo a sottilizzare.

Come avrete capito, quello dei Rose Windows è un rock psichedelico ad ampio spettro, immerso tanto in paesaggi folk (Season of Serpents) quanto capace di scarti hard o heavy-psych (le chitarre che si fanno quasi stoner in Native Dreams: ma più che ai Queens of the Stone Age, pensate a Iron Butterfly o Steppenwolf). Flauti, archi e tastiere doorsiane riempiono i vuoti, mentre alcuni brani, come Heavenly Days o Wartime Lovers, dispiegano un gusto delle armonie vocali che non è poi lontano da quello dei compagni di etichetta Fleet Foxes (la Sub Pop ci prova, a ripetere il colpaccio). E poi non dispiacciono certe fughe verso l'India e l'Oriente, sia in chiave raga-blues (Walking with a Woman, per chi ha amato l'ultimo di Jesse Sykes) sia in chiave più psichedelica (l'intro di sitar che apre la lunga The Shroud, probabilmente il vertice del disco insieme alla spiraliforme The Sun Dogs II: Coda). Del resto il nome della cantante - Rabia Shaheen Qazi - la dice lunga sull'appeal esotico della sua voce (una Grace Slick bruciata da fuoco mistico). Il tutto fa il paio con testi che celebrano un'utopia neo-hippy vagheggiante un'era in cui "correremo ai templi/ dove la vita è segnata dal dollaro/ e annienteremo la bestia per i suoi crimini e ricominceremo da capo". Beata gioventù postmoderna.


     


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