Quando iniziai a scrivere per Rootshighway - più o meno sei anni addietro - la
parola che mi capitava di ripetere più sovente nelle recensioni era "Ryan Adams"
(sì, ho barato: si tratta di due parole. E nomi propri, per giunta). Oggi come
oggi, se dovessi indicare il termine cui ricorro più di frequente, a naso scommetterei
su "vintage" e altri vocaboli semanticamente affini - chessò, "modernariato",
"citazionismo", "postmoderno" (quest'ultimo è come l'aceto balsamico, va di moda
metterlo su tutto). Segni dei tempi. Certo, la riproposizione quasi filologica
della musica del passato è un fenomeno che non riguarda solo il mondo dell'Americana,
e meriterebbe un approfondimento che, mi perdonerete, non ho la possibilità di
affrontare in questa sede (ammesso e non concesso che abbia la competenza e la
necessaria lucidità critica per farlo). Di fronte a The Sun Dogs,
esordio dei Rose Windows da Seattle, un disco partorito nel 2013 ma che
potrebbe tranquillamente recare sulla copertina la dicitura "(c) 1969" - non mi
restano quindi molti modi di affrontare la questione.
A monte dei ragionamenti
spiccioli di sociologia musicale rimane da stabilire se il disco è "buono" o "no
buono" (per citare le categorie estetiche del filosofo Andy Luotto). Io proporrei
di fingere che l'album sia realmente uscito alla fine dei '60 e poi chiedersi:
"avrebbe qualche chance di farsi ascoltare, se comparisse negli scaffali a fianco
di After Bathing at Baxter's o The Family That Plays Together?". La risposta per
me è affermativa. Non che The Sun Dogs sia paragonabile ai dischi summenzionati
(magari...). Ma avrebbe potuto essere un più che discreto prodotto di "seconda
fila" di quella stagione di fughe acide e vibrazioni psichedeliche. Un onesto
derivato, insomma. Se c'è gente che oggi sbava dietro le ristampe di Ultimate
Spinach o Mandrake Memorial, direi che non c'è niente di male ad ascoltare questi
ragazzi (un collettivo più che una band: sette membri fissi, più altri che ruotano
per assecondare le visioni del post-rocker pentito Chris Cheveyo, chitarrista
e principale compositore) che parlano più o meno lo stesso linguaggio, con scioltezza
e gusto. Ok, per loro si tratta di stilemi acquisiti di seconda, se non di terza,
mano. Ma non stiamo a sottilizzare.
Come avrete capito, quello dei Rose
Windows è un rock psichedelico ad ampio spettro, immerso tanto in paesaggi folk
(Season of Serpents) quanto capace di scarti
hard o heavy-psych (le chitarre che si fanno quasi stoner in Native
Dreams: ma più che ai Queens of the Stone Age, pensate a Iron Butterfly
o Steppenwolf). Flauti, archi e tastiere doorsiane riempiono i vuoti, mentre alcuni
brani, come Heavenly Days o Wartime Lovers,
dispiegano un gusto delle armonie vocali che non è poi lontano da quello dei compagni
di etichetta Fleet Foxes (la Sub Pop ci prova, a ripetere il colpaccio). E poi
non dispiacciono certe fughe verso l'India e l'Oriente, sia in chiave raga-blues
(Walking with a Woman, per chi ha amato l'ultimo
di Jesse Sykes) sia in chiave più psichedelica (l'intro di sitar che apre la lunga
The Shroud, probabilmente il vertice del
disco insieme alla spiraliforme The Sun Dogs II: Coda). Del resto il nome
della cantante - Rabia Shaheen Qazi - la dice lunga sull'appeal esotico della
sua voce (una Grace Slick bruciata da fuoco mistico). Il tutto fa il paio con
testi che celebrano un'utopia neo-hippy vagheggiante un'era in cui "correremo
ai templi/ dove la vita è segnata dal dollaro/ e annienteremo la bestia per i
suoi crimini e ricominceremo da capo". Beata gioventù postmoderna.