Opzione uno: possiamo stare qui a menarcela con la storia del rock che è morto,
che tutto è già stato detto, che i bei vecchi tempi. E aspettare il nuovo album
di Van Morrison, John Fogerty o Ian Hunter (sono i primi nomi che mi sono venuti
sulla punta delle dita: sostituiteli pure con quelli che volete) e poi dire, scuotendo
la testa - a rischio che il nostro apparecchio acustico (siamo gente di una certa
età, dopotutto) ci scivoli via dalle orecchie - "questa sì che è musica, perché
non se ne fanno più di dischi così?". Oppure (opzione numero due) possiamo smetterla
di piangerci addosso e indirizzare i padiglioni auricolari verso ciò che accade
là fuori. Magari scopriremmo che di gente che suona rock ce n'è ancora tanta in
giro. Da qualche tempo per esempio sulla East Coast degli USA si è ricomposta
una costellazione di band alternative rock (uso il termine nell'accezione che
poteva avere negli anni '90, per intenderci) che ridà significato a un'idea di
musica in cui dagli amplificatori, oltre a un muro di chitarre discretamente rumorose
e incazzate, viene spremuta fuori un po' di rabbia generazionale, frustrazione,
voglia di fare casino.
Vi abbiamo già parlato dei Titus Andronicus, dal
New Jersey. Ora vi presentiamo The Men, usciti dagli scantinati della Grande
Mela (da Brooklyn precisamente, e i cognomi dei fondatori, Nick Chiericozzi e
Mark Perro, non lasciano dubbi sulle loro origini). Non sono tipi da convenevoli:
una volta imbracciati gli strumenti potete pure dimenticarvi buone maniere e giri
di parole. Dritti al sodo, travolgendo tutto quello che trovano sulla loro strada.
Tre dischi così, tutti difilato, senza fare prigionieri. Tre dischi che hanno
disegnato la parabola di un rock dal gesto punk e dalla veste noise (Husker Du
e Dinosaur Jr i padri putativi), ma con un cuore sempre più scopertamente legato
alla tradizione Americana. Sul disco precedente, Open Your Heart, avevano anche
azzardato una Country Song, tanto per dire. New Moon, quarto
disco in quattro anni, parte come non ti aspetti: Open
the Door è una ballata gentile che potrebbe essere la risposta ai fermenti
neo-sixties della West Coast (altra scena interessante da quelle parti, divisa
tra garage e nuova psichedelia). Ma il resto di New Moon rimette la band sulla
carreggiata abituale, almeno in termini di energia: non è esattamente l'opera
di un gruppo di punkettoni convertiti al folk, come banalmente ha tentato di riassumere
qualcuno. Non bastano certo un piano honky tonk, un mandolino e una lap steel
a trasformarli in una country band (e nemmeno i ricami western delle camicie di
Chiericozzi).
Man mano che il disco va avanti incontriamo una serie di
canzoni figlie della stessa urgenza di sempre, forse un po' meno spigolose (ma
neanche troppo), certo un po' più scoperte nel pagare i propri debiti a radici
e influenze eterogenee, siano l'heartland rock (Half
Angel Half Light, ballata da spazi aperti compressa nella claustrofobia
metropolitana), il folk-rock (Bird Song, ovvero
Tom Petty andato in acido), il rock & roll (The Brass,
cioè come andare a schiantarsi su un muro di feedback a 100 all'ora; Without
A Face, ovvero i Replacements rimasti chiusi in cantina), il garage
rock (Electric, nomen omen) o il classic rock (qualsiasi cosa significhi:
ma provate ad ascoltare la reincarnazione di Neil Young & Crazy Horse che si impossessa
di I Saw Her Face e lo capirete). Sigilla
il tutto una sferragliante cavalcata noise di 8 minuti intitolata Supermoon.
Al termine, se continuate a pensare che il rock sia morto, provate a sentirvi
il polso. E' più probabile che siate morti voi, chissà da quanti anni. E senza
che ve ne siate manco accorti.