The Men
New Moon
[
Sacred Bones
2013]

wearethemen.blogspot.com


File Under: garage-Americana

di Yuri Susanna (13/06/2013)

Opzione uno: possiamo stare qui a menarcela con la storia del rock che è morto, che tutto è già stato detto, che i bei vecchi tempi. E aspettare il nuovo album di Van Morrison, John Fogerty o Ian Hunter (sono i primi nomi che mi sono venuti sulla punta delle dita: sostituiteli pure con quelli che volete) e poi dire, scuotendo la testa - a rischio che il nostro apparecchio acustico (siamo gente di una certa età, dopotutto) ci scivoli via dalle orecchie - "questa sì che è musica, perché non se ne fanno più di dischi così?". Oppure (opzione numero due) possiamo smetterla di piangerci addosso e indirizzare i padiglioni auricolari verso ciò che accade là fuori. Magari scopriremmo che di gente che suona rock ce n'è ancora tanta in giro. Da qualche tempo per esempio sulla East Coast degli USA si è ricomposta una costellazione di band alternative rock (uso il termine nell'accezione che poteva avere negli anni '90, per intenderci) che ridà significato a un'idea di musica in cui dagli amplificatori, oltre a un muro di chitarre discretamente rumorose e incazzate, viene spremuta fuori un po' di rabbia generazionale, frustrazione, voglia di fare casino.

Vi abbiamo già parlato dei Titus Andronicus, dal New Jersey. Ora vi presentiamo The Men, usciti dagli scantinati della Grande Mela (da Brooklyn precisamente, e i cognomi dei fondatori, Nick Chiericozzi e Mark Perro, non lasciano dubbi sulle loro origini). Non sono tipi da convenevoli: una volta imbracciati gli strumenti potete pure dimenticarvi buone maniere e giri di parole. Dritti al sodo, travolgendo tutto quello che trovano sulla loro strada. Tre dischi così, tutti difilato, senza fare prigionieri. Tre dischi che hanno disegnato la parabola di un rock dal gesto punk e dalla veste noise (Husker Du e Dinosaur Jr i padri putativi), ma con un cuore sempre più scopertamente legato alla tradizione Americana. Sul disco precedente, Open Your Heart, avevano anche azzardato una Country Song, tanto per dire. New Moon, quarto disco in quattro anni, parte come non ti aspetti: Open the Door è una ballata gentile che potrebbe essere la risposta ai fermenti neo-sixties della West Coast (altra scena interessante da quelle parti, divisa tra garage e nuova psichedelia). Ma il resto di New Moon rimette la band sulla carreggiata abituale, almeno in termini di energia: non è esattamente l'opera di un gruppo di punkettoni convertiti al folk, come banalmente ha tentato di riassumere qualcuno. Non bastano certo un piano honky tonk, un mandolino e una lap steel a trasformarli in una country band (e nemmeno i ricami western delle camicie di Chiericozzi).

Man mano che il disco va avanti incontriamo una serie di canzoni figlie della stessa urgenza di sempre, forse un po' meno spigolose (ma neanche troppo), certo un po' più scoperte nel pagare i propri debiti a radici e influenze eterogenee, siano l'heartland rock (Half Angel Half Light, ballata da spazi aperti compressa nella claustrofobia metropolitana), il folk-rock (Bird Song, ovvero Tom Petty andato in acido), il rock & roll (The Brass, cioè come andare a schiantarsi su un muro di feedback a 100 all'ora; Without A Face, ovvero i Replacements rimasti chiusi in cantina), il garage rock (Electric, nomen omen) o il classic rock (qualsiasi cosa significhi: ma provate ad ascoltare la reincarnazione di Neil Young & Crazy Horse che si impossessa di I Saw Her Face e lo capirete). Sigilla il tutto una sferragliante cavalcata noise di 8 minuti intitolata Supermoon. Al termine, se continuate a pensare che il rock sia morto, provate a sentirvi il polso. E' più probabile che siate morti voi, chissà da quanti anni. E senza che ve ne siate manco accorti.


      


<Credits>