Occupandoci di rock'n'roll, da queste parti siamo abituati a confrontarci con
l'idea di "genere". Il genere esiste ovunque, in musica come in letteratura o
al cinema, e mette insieme tassonomia, scienze sociali e linguistica. Determinato
appunto dal linguaggio, dallo stile, talvolta dal sesso, il genere risponde a
alcune caratteristiche: il r'n'r, o il jazz, sono generi facilmente identificabili,
ma lo è anche il disco (o il libro, o il film) di chi rifiuta gli steccati di
genere per intrecciarne diversi e, di conseguenza, crearne uno proprietario. Data
l'appartenenza a un genere, data quindi la ricorrenza di costanti sintattiche
o retoriche, si entra nel perimetro di una vera e propria poetica, come sappiamo
da Aristotele e dai suoi commentatori in chiave filosofica (Ricoeur) e semiotica
(Genette), quando, davanti a un'opera, si apre un "mondo" di segni dinamici. John
Vanderslice, nativo della Florida ma da parecchio trapiantato in quel di San
Francisco, parrebbe a un primo sguardo muoversi non in un mondo, bensì in un universo
quasi illimitato di emblemi significanti: il suo pop'n'roll analogico, quasi una
traduzione in chiave indie delle canzoni di Kinks, Todd Rundgren e Xtc formulata
ricorrendo alle interferenze di un'elettronica cheap e polverosa, ha seminato
ormai da dieci dischi a questa parte una lunghissima scia di indizi tesi a suffragarne
la statura di autore (tanto più ricercata quanto più negata, benché solo in apparenza,
da un lessico costruito su understatement, difetti, ironia, particolari storti).
Per Dagger Beach, album registrato dal nostro in tormentata
solitudine nei boschi a nord di Sacramento, dopo il divorzio dalla moglie (e finanziato
da una campagna su Kickstarter che ha raggranellato tre volte tanto la cifra sperata,
al punto da spingere l'artista a incidere anche una rivisitazione del David Bowie
di Diamond Dogs da spedire in omaggio a ciascun contribuente), si sono addirittura
sprecati i paragoni con celeberrimi "break-up records" - i dischi-cronaca di una
separazione - quali Blood On The Tracks (Bob Dylan), Sea Change (Beck), Get Lonely
(Mountain Goats) o Disintegration (Cure). Fesserie. Il Vanderslice della "spiaggia
dello spadaccino" sarà indubbiamente più malinconico e introverso del solito (in
North Coast Rep rumina all'infinito su una
vecchia fotografia), ma la vena intimista non ne corregge la propensione dispersiva,
l'ispirazione frammentata nei rivoli acustici di How
The West Was Won, in quelli orchestrali di Song For David Berman,
in quelli elettrici (sempre con moderazione) di Raw Wood.
L'impianto è ormai consueto: un mazzo di canzoncine su basi acustiche,
appena screziate da piccole deformazioni alla maniera del primo Wayne Coyne, rese
devianti da un armamentario di synth scricchiolanti, tastiere antidiluviane, bleeps
cavernosi. Solo che stavolta, anziché assumere connotati più classici, i brani
sono ancora più brevi e disarticolati del solito. Nonostante questo, persino nel
duetto fra pianoforte e chitarra di Song For The Landlord
Of Tiny Telephone o nell'inaspettato climax percussivo di Sleep
It Off, manca un qualsiasi effetto sorpresa. Pur cambiando gli anni
e le condizioni di partenza, a non cambiare di una virgola è il metodo Vanderslice,
troppo bislacco per emozionare sul serio, troppo tradizionale per incuriosire
i cultori delle vere stranezze. E il problema della scrittura dell'artista è sempre
lo stesso: per quanto possano essere bizzarri e stravaganti gli strumenti adoperati
per sfogarla, a derivarne è di nuovo un insieme sfuggente, purtroppo incapace
di trasformare l'indecisione in cifra stilistica. Come spesso accade, del resto,
a chi possiede idee, intuizioni e inventiva ma non una poetica propria.