Il Wyoming è una terra che incarna i tipici wide open space americani,
conosciuta non solo per gli avvistamenti di Ufo (qui si girò Racconti Ravvicinati
del Terzo Tipo) ma anche per le immense praterie, il verde dei suoi boschi e il
bianco delle sue alte montagne (basta rivedersi Brockeback Mountain o Balla con
i Lupi per rendersene conto). E Wyoming, secondo album per i Water
Liars (dopo il loro esordio Phantom Limb di appena un anno fa) anche se registrato
nella loro terra d'origine, il Mississippi (arrivano da Oxford, nel bel mezzo
della Water Valley) richiama proprio quei vasti spazi aperti dove uno può vagare
e perdersi per giorni. Il loro sound è qualcosa d'intrigante, un folk acustico
dalle tinte country pennellato da incursioni elettriche dal sapore vagamente psichedelico
tanto da renderlo difficile da catalogare in questo o in quel genere e per questo
originale e versatile.
Le loro ballate dalle tinte uggiose tendono più
verso "l'Amaro" che "il Dolce" ed esplodono in vere e proprie jam grazie a riusciti
crescendo costruiti sul picking dell'elettrica di Justin Kunkel Schuster e sul
thumping esplosivo del compagno Andrew Bryant. Wyoming possiede la forza, il vigore
e la malinconia tipica di due losers della provincia americana dalla barba lunga
che hanno passato metà dell'anno a suonare in qualche scalcinato bar, magari non
adatto per tutte le occasioni ma sicuramente appropriato per i lunghi giorni piovosi
o semplicemente per quando si ha solo voglia di crollare sul divano con quel tocco
elettro acustico tipico degli Afghan Wings insieme alla delicatezza folk dei Fleet
Foxes. In Sucker, opening track della raccolta,
rimbomba la batteria di Andrew mentre Justin sfrega l'elettrica prima che sul
finale della ballad esploda il loro sound come una bomba a orologeria. Fake
Heart (che parla degli errori di essersi confidato con una ragazza)
ha un mood malinconico e introspettivo, che inizia con un rallentato e indovinato
riff e si trasforma in un bellissimo finale corale, dove i due compagni cantano
a cappella.
Linens ci riporta in lidi
più solari con una bella ballata acustica, mentre Back
bone è forse il brano più tirato della raccolta con un inizio ripetitivo
e psichedelico tanto caro all'insegnamento del post punk, con un bell'assolo elettrico,
per trasformarsi nel momento giusto in uno slow waltz sussurrato e intimo che
ricorda proprio gli immensi e solitari open space. Cut
a Line inizia con un bel groove elettrico acustico per trasformarsi
in un pezzo esplosivo dove non mancano assoli e riverberi. Un suono a volte grezzo
figlio di Kurt Cobain e del grunge dei primi '90. Da How Will I Call You
il disco cambia traiettoria spostandosi verso un semplice folk acustico scritto
e suonato con il cuore, mantenendo sempre un velo di malinconia. Azzecate sono
la dolce titletrack e le successive You Works Days I
Work Nights e Fine Arts ricche di una leggiadra psichedelica
quasi impercettibile. Un piano in lontananza accompagna il cantato quasi da carillon
di Justin, che funge da canto del cigno per una raccolta che presenta sicuramente
tratti grezzi e spigolosi e altri di un'immensa malinconia capace di regalarci
in ambo i casi emozioni forti.