Wovenhand
The Laughing Stalk
[Glitterhouse Records  
2012]

www.wovenhand.com


File Under: apocalyptic blues

di Fabio Cerbone (26/09/2012)

Il mondo oscuro e controverso attorno a David Eugene Edwards resta immutabile come il suo adorato Dio, pur cambiando pelle e suono: continuità nello stile dunque per la creatura Wovenhand, da tempo ormai nuova forma sotto cui si cela il fervido songwriting del'ex Sixteen Horsepower. The Laughing Stalk imprime effettivamente una sterzata improvvisa al folk apocalittico e dilatato dei giorni passati, svoltando verso una cupa, travolgente elettricità che pare figlia diretta della stagione post punk più densa e nera. Non che si tratti di una scoperta improvvisa: l'amore di Edwards per una certa new wave virata alle ombre e al sepolcrale era ben evidente sin dai giorni dei citati 16 Horsepower, quanto meno prorompente in album essenziali della sua produzione come Secreth South.

Oggi però, abbandonato il vecchio compagno Pascal Humbert, musicista di origini francesi tornato a lavorare alla vecchia vigna del padre, Wovenhand si ristruttura con una band completamente rinnovata, chiamando a raccolta le chitarre di Charles French e il basso di Gregory Garcia, allargando quindi gli orizzonti del suono all'organo di Jeffrey Linsenmeier, ma soprattutto trovando un'anima gemella nel produttore Alexander Hacke, che porta in dote i suoi giorni con Bad seeds e Einsturzende Neubauten. I punti di riferimento sono evidenti, ma al resto ci pensa Edwards, che prosegue nella sua litania rock a sfondo religioso, infilando invocazioni e preghiere sinistre con quella scrittura esaltata che lo contraddistingue da sempre, lui cresciuto nella cultura protestante più accesa dell'America profonda.

I riflessi su The Laughing Stalk non tardano a farsi sentire, raddoppiando l'intensità e il trasporto delle sue declamazioni dentro una coltre dark che erutta fin dalle prime note di Long Horn: chitarre aggressive si distendono su riverberi solenni e proprio questa atmosfera maestosa ricopre gli episodi successivi, contrassegnando un disco più conciso e ispirato dei predecessori. Con la stessa singolare magnificenza del passato, ma con un'immaginazione ingigantita, veniamo trascinati nel mistero della title track, melodia che si apre inaspettatamente alla luce, scaraventati quindi nel tribale incedere di In the Tenple e fra le trame heavy di King O King, implorazione che solo la penna di Edwards poteva inventarsi. Closer ha più di un punto di contatto con il Nick Cave tragicamente rock del passato, evidenziando il lavoro di Alexander Hacke su ritmi, suoni e voci, anche quando The Laughing Stalk prende una piega più estesa e meno irruente: in Maize ad esempio o negli strali psichedelici delle chitarre in Coup Stick. Una "distensione" apparente, sia detto, perché nel finale Wovenhand torna ad azzannare la carne viva della sua fede con l'incedere infuocato di As Wool e i colpi sinistri, angosciati di Glistening Black, tra liriche che sembrano visioni improvvise. E visionaria, impressionate resta anche la musica di Wovenhand.


    


<Credits>