Thalia Zedek
Via
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Thrill Jockey
2013]

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File Under: stray cat blues

di Gianfranco Callieri (29/04/2013)

Più lo ascolto, più mi convinco che la chiave di lettura di Via, quarto album solista di Thalia Zedek dopo la militanza più o meno duratura in diversi gruppi post-punk come Uzi, Live Skull e i meravigliosi Come, stia tutta nella sua copertina. Nell'immagine è raffigurata una spiaggia, probabilmente italiana (la dicitura "Bagno n.13", visibile sulle assi di una malandata cabina spogliatoio, non lascia molti dubbi), forse affacciata sull'Adriatico. Ma quel che conta, nella foto, è lo spirito, la malinconia di un autunno pieno di addii, la discrezione quasi timorosa della luce, e non la nazionalità del litorale. Il quale, mutatis mutandis, per evocazione sonora e suggestione potrebbe anche essere quello, per sempre uggioso, crepuscolare e nostalgico (custode, per dirla alla Govoni, delle "cose tristi dell'amore, le cose tristi delle miserie"), immortalato da Woody Allen nella Rockaway Beach newyorkese di Radio Days.

Pur rimanendo in sostanza fedele al suo punk-blues tormentoso e straziato, sulla scia di un affascinante connubio tra la lordura rockista dei Rolling Stones di Beggars Banquet e l'alienazione stridente dei Velvet Underground più metropolitani e schizzati, la Zedek ha compiuto qualche piccolo spostamento di stile in ognuno dei propri album. Così, se Been Here And Gone (2001) era stato il suo disco più contorto e nevrotico, quasi una propaggine degli ultimi Sonic Youth, e il successivo Trust Not Those in Whom Without Some Touch Of Madness il più indie, elicitato e frammentario, Liars And Prayers, cinque anni fa, aveva contrassegnato il suo momento più energico e aggressivo (non necessariamente il migliore). Via riassume in qualche modo tutte gli incantesimi degli album precedenti per indirizzarli verso un linguaggio rinnovato, più disteso e apertamente classico rispetto al passato. Aiutata, come sempre, dalla viola lirica e distorta di David Michael Curry (Willard Grant Conspiracy) e dal piano dolente di Mel Lederman, nonché dai tamburi slowcore del nuovo arrivato Dave Bryson (Son Volt), la Zedek confeziona un set di canzoni forse mai così melodiche, dove trovano spazio la febbre ipnotica di Neil Young (He Said, bellissima) e il punk-blues rabbioso e disperato di Winning Hand, la nevrosi agonizzante di una Go Home imparentata col Nick Cave degli esordi e il tumulto chitarristico dell'esplosiva Lucky One, con un finale in crescendo psicotico degno dei Television.

Cruciale è anche l'inaugurale Walk Away, rarefatta base country-folk destinata a evolversi in un clash urbano tra Patti Smith e Steve Wynn, con l'immancabile senso di desolazione e tracollo a sgocciolare da ogni nota. Questa volta, però, c'è un elemento di contrasto a emergere in ciascuna canzone, ed è un'inedita impressione di serenità, di speranza e ottimismo, come se nell'aggrovigliarsi schizofrenico di blues, new-wave e rock'n'roll Thalia Zedek avesse finalmente trovato il proprio risarcimento interiore, la propria sicurezza perduta. Basta poco, in fondo, magari la sensazione di pace derivante dai contorni incerti di una strada fatta di piastrelle logorate, l'odore saturo della sabbia bagnata, l'orizzonte incerto dell'acqua, l'aria salmastra e il cielo ingrigito di un giorno qualsiasi, di fronte al mare d'inverno. Per quanto flebile, è una luce in fondo al tunnel della pochezza dei giorni, e per lo spazio di un disco è un sollievo abbandonarvisi.


    


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