Più lo ascolto, più mi convinco che la chiave di lettura di Via,
quarto album solista di Thalia Zedek dopo la militanza più o meno duratura
in diversi gruppi post-punk come Uzi, Live Skull e i meravigliosi Come, stia tutta
nella sua copertina. Nell'immagine è raffigurata una spiaggia, probabilmente italiana
(la dicitura "Bagno n.13", visibile sulle assi di una malandata cabina spogliatoio,
non lascia molti dubbi), forse affacciata sull'Adriatico. Ma quel che conta, nella
foto, è lo spirito, la malinconia di un autunno pieno di addii, la discrezione
quasi timorosa della luce, e non la nazionalità del litorale. Il quale, mutatis
mutandis, per evocazione sonora e suggestione potrebbe anche essere quello, per
sempre uggioso, crepuscolare e nostalgico (custode, per dirla alla Govoni, delle
"cose tristi dell'amore, le cose tristi delle miserie"), immortalato da Woody
Allen nella Rockaway Beach newyorkese di Radio Days.
Pur rimanendo in
sostanza fedele al suo punk-blues tormentoso e straziato, sulla scia di un affascinante
connubio tra la lordura rockista dei Rolling Stones di Beggars Banquet e l'alienazione
stridente dei Velvet Underground più metropolitani e schizzati, la Zedek ha compiuto
qualche piccolo spostamento di stile in ognuno dei propri album. Così, se Been
Here And Gone (2001) era stato il suo disco più contorto e nevrotico, quasi una
propaggine degli ultimi Sonic Youth, e il successivo Trust
Not Those in Whom Without Some Touch Of Madness il più indie, elicitato
e frammentario, Liars
And Prayers, cinque anni fa, aveva contrassegnato il suo momento più
energico e aggressivo (non necessariamente il migliore). Via riassume
in qualche modo tutte gli incantesimi degli album precedenti per indirizzarli
verso un linguaggio rinnovato, più disteso e apertamente classico rispetto al
passato. Aiutata, come sempre, dalla viola lirica e distorta di David Michael
Curry (Willard Grant Conspiracy) e dal piano dolente di Mel Lederman, nonché dai
tamburi slowcore del nuovo arrivato Dave Bryson (Son Volt), la Zedek confeziona
un set di canzoni forse mai così melodiche, dove trovano spazio la febbre ipnotica
di Neil Young (He Said, bellissima) e il punk-blues
rabbioso e disperato di Winning Hand, la nevrosi
agonizzante di una Go Home imparentata col Nick Cave degli esordi e il
tumulto chitarristico dell'esplosiva Lucky One,
con un finale in crescendo psicotico degno dei Television.
Cruciale è
anche l'inaugurale Walk Away, rarefatta base
country-folk destinata a evolversi in un clash urbano tra Patti Smith e Steve
Wynn, con l'immancabile senso di desolazione e tracollo a sgocciolare da ogni
nota. Questa volta, però, c'è un elemento di contrasto a emergere in ciascuna
canzone, ed è un'inedita impressione di serenità, di speranza e ottimismo, come
se nell'aggrovigliarsi schizofrenico di blues, new-wave e rock'n'roll Thalia Zedek
avesse finalmente trovato il proprio risarcimento interiore, la propria sicurezza
perduta. Basta poco, in fondo, magari la sensazione di pace derivante dai contorni
incerti di una strada fatta di piastrelle logorate, l'odore saturo della sabbia
bagnata, l'orizzonte incerto dell'acqua, l'aria salmastra e il cielo ingrigito
di un giorno qualsiasi, di fronte al mare d'inverno. Per quanto flebile, è una
luce in fondo al tunnel della pochezza dei giorni, e per lo spazio di un disco
è un sollievo abbandonarvisi.