Autori Vari
God Don't Never Change: The Songs Of
Blind Willie Johnson

[Alligator/ IRD 2016]

www.alligator.com

File Under: soul of a preacher bluesman

di Fabio Cerbone (20/02/2016)

Archeologia dell'american music moderna, all'intersezione fra musica sacra e profana, fra tradizione gospel religiosa e secolare linguaggio blues, la figura di Blind Willie Johnson e quella piccola manciata di incisioni registrate fra il 1927 e il 1930 per la Columbia distendono ancora oggi un fascino primitivo, un richiamo alla natura più misteriosa di certe canzoni. Era ciò che cercava di catturare anche Bob Dylan nei Basement Tapes e che la famosa "Anthology of Folk Music", della cui scaletta faceva parte lo stesso Johnson, aveva insegnato alle nuove generazioni di musicisti che si affacciavano sul pozzo della memoria folk negli anni sessanta. Texano, biografia come sempre incerta, degna degli enigmi che avvolgono altri giganti come Robert Johnson, Blind Willie Johnson era un predicatore itinerante nei tempi grami che precedettero la Grande Depressione, evento che alla fine gli avrebbe strappato via anche la casa e la vita (morì a Beaumont, Texas, per le conseguenze di una febbre malarica, appena conclusa la Seconda Guerra Mondiale). Suonava agli angoli delle strade, in mezzo alla gente, si accompagnava alla moglie, che lo sorreggeva nel difficile compito e convertiva le anime all'imperscrutabile volere del Signore, suonando una slide guitar che metteva a dura prova le regole della buona creanza cristiana.

Diavolo e acqua santa, con una voce che sapeva essere un tuono e una carezza al tempo stesso, e uno stile chitarristico che lo distingueva da tutti gli altri rappresentanti del blues pre-bellico. Le cinque sessioni per la Columbia e il piccolo ma assai influente songbook lasciato in eredità (basterebbero titoli come The Soul of a Man, Jesus Make Up My Dying Bed, John the Revelator o Nobody's Fault but Mine) sono un imprescindibile manuale per qualsiasi autore che voglia misurarsi non solo con il manuale del blues rurale in senso stretto, semmai con l'arcano stesso dell'America: la sua Dark Was The Night Cold Was The Ground non è stata scelta a caso come testimonianza da inviare nello spazio con la sonda Voyager, un messaggio dall'anima più recondita degli uomini per chiunque voglia un giorno comunicare con la Terra.

God Don't Never Change: The Songs Of Blind Willie Johnson è un tributo a questa eredità misteriosa, fortemente voluto dal produttore Jeffrey Gaskill (già apprezzato per il suo lavoro con Gotta Serve Somebody: The Gospel Songs of Bob Dylan) e finanziato attraverso una campagna di successo, a partire dal 2013, sulla piattaforma Kickstarter. I fondi hanno permesso di reclutare un cast stellare, mantenendo però una sequenza equilibrata e una misura nella scelta delle tracce che impedisce al progetto di diventare una semplice parata di nomi. Innanzi tutto soltanto undici brani, persino due brani a testa per Tom Waits e Lucinda Williams, facce speculari della stessa medaglia gospel blues, e il resto nelle mani di artisti che potrebbero persino sembrare lontani dal gesto di Johnson (Cowboy Junkies, Sinead O'Connor, Rickie Lee Jones) e che invece si rivelano in buona parte capaci di mettere in gioco le certezze della fonte di ispirazione.

Accompagnata dalle parole dello stesso Gaskill e da un dettagliato pamphlet biografico firmato da Michael Corcoran, l'album è un'opera che non sconfina in puri intenti "pedagocici" e men che meno filologici, traccia un chiaro ritratto dell'eredità artistica di Johnson, ma sceglie poiun approccio che potremmo definire addirittura incompleto, solamente una pista, che l'ascoltatore potrà poi completare, prima di tutto andando a riscoprire le trenta incisioni originali della fine degli anni Venti, quindi inoltrandosi nei mille rivoli di quella tradizione a cavallo tra spiritualità e carnalità del blues.

Si parte in ogni caso con il più sanguigno e passionale degli interpreti, il Tom Waits dell'arcinota The Soul of a Man, qui martoriata dal rantolo caratteristico dell'autore, eppure tenuta nei binari di un secolare blues tutto battiti e fremiti vocali, tra l'altro registrato in famiglia con Casey Waits alla batteria e la moglie Kathleen Brennan ai cori. Waits riemerge più avanti con una John the Revelator sinistra e ringhiosa, invishiata con gli ammeniccoli ritmici tipici del suo periodo Bone Machine. Simmetrica, come si anticipava, la Lucinda Williams di It's Nobody's Fault But Mine e God Don't Never Change, strascicata, gorgogliante e immersa dalle acque del Mississippi con la slide di Doug Pettibone e il contributo della fidata sezione ritmica: qui il recinto è quello del Sud e dei suoi segreti, nel conflitto eterno fra terra e cielo. Anche Derek Trucks e Susan Tedeschi si attengono fedeli al tracciato della tradizione, finanche più diligenti: la loro Keep Your Lamp Trimmed And Burning è acustica e gospel fino nelle ossa, schiocco di mani e controcanti del collaboratore Mike Mattison compresi.

Ben diverso il raffronto per i Cowboy Junkies di Jesus Is Coming Soon, i quali non solo osano utilizzare un sample della voce originale di Blind Willie Johnson, messa in parallelo con l'etereo timbro di Margo Timmins, ma piegano al fascino del loro stile musicale la sensualità della canzone. Uno degli episodi più intriganti, che fa il paio con la Sinead O'Connor di Trouble Will Soon Be Over, più "moderna" nell'arrangiamento, eppure contenuta nel clima ritmico dell'originale, con lo scheletrico palpito ritmico e il sostegno vocale di Joanne e Nicola Papenfus. La sua interpretazione vocale è fra le più avvincenti, al fianco di un'esplosiva (e rediviva, aggiungiamo noi) Maria McKee in Let Your Light Shine On Me, sbucata direttamente da una riunione in qualche chiesa Battista. Il che ci porta naturalmente ai Blind Boys of Alabama di Mother's Children Have a Hard Time, qui prodotti da Jason Isbell ai leggedari studi di Muscle Shoals in Alabama, con lo stesso Isbell alla chitarra slide. Chi altri sceglie di attenersi al verbo sudista è il misurato e rurale Luther Dickinson di Bye and Bye I'm Going to See the King, accompagnato dal particolare timbro al flauto di Shardé Thomas (lo stile "fife and drum blues" mutuato da Othar Turner), mentre di tutt'altra pasta è la chiusura affidata a Rickie Lee Jones, alle prese proprio con l'immortale Dark Was the Night Cold Was the Ground. La sua interpretazione, chitarra e voce, spiazza per la voluta imprecisione, la fragilità vocale esibita, l'indifesa arrendevolezza ,ma sembra aggrapparsi a una forza nascosta, nel docile manto dei fiati che arricchiscono lo scarno arrangiamento: forse è lo stesso Blind Willie Johnson a sorreggerla per mano fino in fondo.



    


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