Tommy Conwell & The Young Rumblers
Rumble + Guitar Trouble (Reissue Series)
[American Beat records  2007]

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Perdonatemi fin da subito se per ricordare la figura di Tommy Conwell ricorro ad un'esperienza personale. Nel 1991 ho passato sei settimane in un college universitario della Michigan University, nei pressi di Detroit. Anche tra i ragazzi del campus vigeva la stessa rigida segregazione razziale palpabile nella metropoli (rivolgere la parola ad un nero era realmente un pericolo), e questa si tramutava anche in una netta distinzione tra gusti musicali: ai bianchi i Metallica e l'AOR da Fm americana, ai neri il rap. Esistevano due eccezioni a questa regola: Bob Seger, eroe locale trasversale alle razze, e Tommy Conwell. Questo ragazzo di Philadelphia infatti aveva scritto l'anno prima una canzone intitolata I'm Seventeen che veniva usata come inno iniziatico delle congregazioni universitarie più debosciate del campus (chi ha visto Animal House di John Landis sa cosa intendo). E non è un caso che un altro rocker di derivazione universitaria come GB Leighton suonasse regolarmente la canzone durante i suoi concerti suscitando grande clamore tra il giovane pubblico (sentire a questo proposito il consigliatissimo Live From Pickle Park del 1998). La riedizione dei suoi unici due dischi per la Columbia Records in un unico cd (uscita a marzo a dire la verità) ci dà l'occasione di riscoprire un personaggio di cui si sono ormai perse le tracce discografiche (dopo questi due titoli, Tommy realizzò solo un album in stile rockabilly nel 1997, intitolato Sho' Gone Crazy). La storia è questa: Tommy Conwell e la sua folgorante band, i Young Rumblers, realizzarono indipendentemente nel 1986 un album chiamato Walking On The Water (prodotto da Andy King, bassista degli Hooters), e quelli erano tempi in cui questo si traduceva in tante cassette auto-registrate da distribuire agli amici e da lanciare al pubblico nei concerti, nella speranza che in mezzo ci fosse un produttore interessato a fare un contratto. Ma siccome di queste cassette se ne vendettero la cifra esorbitante di 50.000 copie, gli osservatori della Columbia offrirono al volo un contratto ai cinque ragazzi.

Rumble
, il loro primo disco ufficiale, uscì nel 1988 e fu un sorprendente successo (più di 300.000 copie vendute): persino in Italia il video del selvaggio singolo I'm Not Your Man (primo in classifica tra i singoli negli States) passava regolarmente in canali commerciali come la nostrana Deejay Television, giusto per dare la dimensione del fenomeno, e in patria il biondo Tommy ebbe l'onore di suonare nelle trasmissioni televisive più "in" (David Letterman Show, l'Arsenio Hall Show,…). Il disco, prodotto da un volpone della consolle come Rick Chertoff (il ricco pigmalione di Cindy Lauper), riuscì a dare l'idea della travolgente energia di una sensazionale live-band, nonostante la produzione leggermente pompata, in pieno stile anni 80 (big-drum sound, toni a livelli altissimi, echi nei cori…) e un paio di brani furbetti e pienamente mainstream (Half A Heart e Love's On Fire ad esempio) portarono molta critica del tempo a scambiarlo per un clone di Bryan Adams. Ma il resto suona ancora oggi come un pugno nello stomaco alla noia, un concentrato di energia rock al 100%. Workout, Walking On The Water, Tell Me What You Want Me To Be e la stessa I'm Not Your Man (che vanta uno dei più travolgenti incipit che io ricordi) erano tutte piccole gemme di roccioso rock da bar-band. Per non parlare dell'emozionante Gonna Breakdown, che in tutta la sua disarmante semplicità, era una struggente testimonianza di sofferenza umana, o di come I Wanna Make Your Happy flirtava alla grande con il funky e di quando il secondo bellissimo singolo, If We Never Meet Again (arrivato al nono posto in classifica), venne addirittura omaggiato da un grande vecchio come Roger McGuinn, che scelse il brano per chiudere il suo comeback del 1989 (il deludente Back From Rio).

Grandissimo rock che veniva puntualmente riproposto dal vivo in infuocati concerti come spalla di artisti quotati (oltre allo stesso Bryan Adams, Tommy seguì i Pretenders, David Bowie e Nick Lowe). Raggiunto il successo arrivarono però i problemi: la Sony comprò la Columbia e portò una nuova politica "artistica" presentando a Tommy una serie di brani di loro gradimento da registrare, non fidandosi molto delle sue canzoni. Conwell non solo rifiutò, ma si impuntò per scrivere quasi tutto di suo pugno, rinunciando alla salutare collaborazione di altri autori di testi come era successo per il primo album. Inoltre pretese anche un produttore meno radiofonico e più consono al taglio blues che intendeva dare al secondo disco, e la scelta cadde su Pete Anderson, a noi noto come produttore di Dwight Yoakam, oltre ad assicurarsi anche uno stuolo di session-men di primo ordine (Bruce Hornsby, Bill Payne, Kenny Aronoff, persino il vecchio pianista di Chuck Berry, Johnnie Johnson). Scelte che però misero in secondo piano la sua band, che registrò la defezione del chitarrista Christopher Day (che non divertendosi più tornò a fare l'impiegato) in favore del più country/blues-oriented Billy Kemp.

Guitar Trouble
uscì nel 1990, simbolicamente con il solo Tommy e non più tutto il gruppo in copertina, e la Columbia ne decretò fin da subito la rovina commerciale non promuovendolo a dovere. Il singolo I'm Seventeen arrivò comunque al quindicesimo posto in classifica grazie al tam-tam dei college di cui abbiamo già parlato, ma il disco finì presto invenduto nelle offerte dei negozi. Guitar Trouble riascoltato oggi è un onesto disco di blues e blue-collar rock che tanto ricorda i dischi di George Thorogood e il primo Jeff Healey, ma con un tiro ancora notevole. Oltre alla title-track, brani come la bella Didn't Want To Sing The Blues, impreziosita dalla grande armonica di Rod Piazza, il jumpin' blues di Nice'N Naughty o la scolastica ma divertente Do Right cercavano di ricreare l'atmosfera da hard-blues da dopolavoro dei locali di Philadelphia. Ovviamente il punto debole del disco erano le canzoni stesse, nel senso che Conwell era un ottimo performer, ma di certo più che brani da "abc del giovane rocker" come Hard As A Rock, Good Love Bad, She's Got It All, Rock With You (banali anche nei titoli) o la pur trascinante Let Me Love You Too non sapeva offrire. Tentò anche la via della ballatona da accendini con la bella What Once Was (un brano di Tim Kreckel), ma alla fine la cosa più memorabile del disco rimane la genuina strafottenza dei versi generazionali di I'm Seventeen (che era presente in duplice versione, elettrica e acustica): "I'm seventeen and I am cool, I'm seventeen I break the rules I'm seventeen, and I don't care, I'm seventeen, been through it all Sex and drugs and alcohol…" Versi semplici che oggi forse ci fanno sorridere, ma che a diciassette anni saremmo stati tutti pronti ad urlare a squarciagola. L'epilogo della storia è presto detto: Tommy rifiutò di seguire in tour i million-sellers ZZTop (al suo posto ci andranno i giovani Black Crowes) per accodarsi al tour di John Lee Hooker, da qui la inevitabile rescissione del contratto con la Sony/Columbia e un nuovo promettente contratto con la MCA, che si tradurrà però solo in un paio di brani (registrati con gli ex Stray Cats Brian Setzer e Lee Rocker) prestati alla colonna sonora di un fallimentare musical rockabilly (Shout, con il decaduto John Travolta e l'esordiente Gwyneth Paltrow) e un album (dal fantomatico titolo Neuroticus Maximus) rifiutato dalla stessa MCA e mai più pubblicato.

E fine anche degli Young Rumblers: il bassista Paul Slivka continua la vita da session man ed è sempre "uno dei nostri", se è vero che lo ritrovate in East Autumn Grin di Matthew Ryan e recentemente in Summerbirds di Rod Picott e Angels in Disguise di Jeff Finlin. Il pianista Rob Miller vivacchia ancora con qualche band della scena indie, mentre si sono perse le tracce del batterista Jim Hannum. La scarna confezione della ristampa, corredata solo da alcune essenziali note di copertina nel brutto libretto e nulla più, dimostra ancora una volta il poco rispetto della Sony per il proprio catalogo, ma almeno è finalmente stata realizzata grazie all'interessamento della sussidiaria American Beat Records. I due titoli non erano forse dei capolavori, eppure furono comunque dischi decisivi per far capire al mondo che anche negli anni '80 il rock e il blues sopravvivevano con immutato furore nei locali delle città americane, e recuperarli oggi è per noi un vero piacere. Se capitate a Philly non dimenticatevi di cercare Tommy Conwell: oltre a fare il deejay alla radio, suona ancora in qualche bar con una band chiamata Little Kings, fanno cover di Chuck Berry e degli AC/DC, e ogni tanto si lanciano in qualche classico degli Young Rumblers…probabilmente con gli occhi lucidi e il pensiero a quegli anni formidabili
(Nicola Gervasini)


www.tommyconwell.com



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