Lucinda Williams
Real guitars and live tales
Lucinda Williams
Live @ the Fillmore
(Lost Highway 2005)
 

A Lucinda Williams non è mai piaciuto fare le cose in fretta. O forse non ha mai potuto, chissà. Anche adesso, oltrepassata la boa dei 50 anni nonché raggiunto uno status artistico e commerciale di tutto rispetto, la nostra rockeuse preferita non sembra intenzionata a farsi abbindolare dalle sirene della serialità o dei dischi un tanto al chilo. In parte, questa ragionata lentezza nel cadenzare le uscite discografiche è da imputarsi alle sue origini sudiste (è nata a Lake Charles, Louisiana, nel 1953) e al carattere rilassato e sornione che paiono portare in dote; in parte, e secondo me nella parte sostanziale, la carriera di Lucinda è stata sempre contrassegnata da un approccio assai incisivo alla sala d'incisione: un lavoro - Fruits Of My Labor - di meticolosa, paziente e testarda professionalità che, album dopo album, le ha consentito di cucirsi addosso un suono personalissimo e immediatamente riconoscibile, quello poi estrinsecatosi in tre dischi - Car Wheels On A Gravel Road (1998), Essence ('01), World Without Tears ('03) - a dir poco perfetti sotto ogni possibile profilo. Non che quelli precedenti si segnalassero per demeriti particolari, ma alla luce dell'inattaccabile equilibrio degli ultimi lavori è naturale identificare i più stagionati Ramblin' ('78), Happy Woman Blues ('80), Lucinda Williams ('89) e Sweet Old World ('92) nelle prove generali, talvolta istintive e talvolta sofferte, di una visione che avrebbe trovato pieno compimento soltanto in seguito. Logico, insomma, che giungesse il fatidico doppio dal vivo a fotografare, celebrare e suggellare un lustro abbondante di ispirazione inesausta, e Live @ The Fillmore non delude certo le aspettative, marchiando anzi la stagione discografica in modo indelebile attraverso un trionfo di rabbia, dolcezza, passione e rock'n'roll. Merito ovviamente della statura di interprete e di autrice archiviata da Lucinda, ma anche di una band che è la migliore che si sia mai trovata alle spalle. Aggiungendo alla conta la spettacolare chitarra solista di Doug Pettibone (un fenomeno o poco meno), il basso incalzante di Taras Prodaniuk (attenzione al suo soliloquio su Are You Down) e il drumming quanto mai duttile di Jim Christie (ora aggressivo e pestone, ora discreto e carezzevole), sul palco ci sono in tutto quattro persone, eppure, all'occasione, sanno macinare artiglieria rock come gli Stones al gran completo oppure creare un'atmosfera intima e raccolta da folk-festival. La prima parte del doppio cd è affidata alle ballate indolenti tra country, rock e blues che col tempo si sono trasformate nel tratto distintivo della scrittura di Lucinda. Dal pigro laid-back di una splendida Out Of Touch alle partiture jazzate della doppietta Overtime / Blue, dal folk-rock struggente di Ventura alla filastrocca triste di Lonely Girls, un magnifico catalogo della side of the road dove trovano rifugio e disinfettante per le ferite vagabondi, solitari, uomini e donne in fuga o col cuore spezzato, insomma tutti gli underdogs troppo romantici per integrarsi a fondo nelle caselle della società. Il primo scossone arriva con l'abrasiva versione di Changed The Locks, che dal punto di vista del lavoro alla sei corde è il capolavoro assoluto di Pettibone, grezzo e richardsiano (nel senso di "Keef") come non mai. Da qui in poi, e proseguendo in buona parte del secondo disco, l'introspezione cede il timone a uno suono sporco, distorto, quasi da garage band, con punte eclatanti di foga nella voce scorticata che accompagna il ringhio di una sublime Joy (otto minuti da brividi, con Lucinda recalcitrante e invelenita alla maniera di un Dan Stuart in gonnella) e nell'epica alla Neil Young di una grandiosa Essence. Ma tutta la parte centrale, che comprende pure il boogie-blues fiammeggiante di Atonement, il drive granitico di I Lost It, la sensualità di Righteously, una ruggente rilettura dell'ormai classica Pineola e il rockaccio in odor di Paul Westerberg di Real Live Bleeding Fingers And Broken Guitar Strings, è dominata dal fremito elettrico di un rock'n'roll scomposto, nervoso, graffiante. Dopo il country-folk frizzante di Those Three Days e il rapping allucinato di American Dream, la chiusa dell'album torna a far quadrare il cerchio della malinconia e dei ricordi con la rarefazione cinematica di World Without Tears, Bus To Baton Rouge (in bellissima chiave semiacustica) e Words Fell. Saluti di rito al pubblico con tre parole molto significative: "Love, peace & revolution". A questo punto ignoro se, andandosene a Slidell, Lucinda Williams sia riuscita a ritrovare la sua gioia. Quel che so è che si è dimostrata capace di trasformare le proprie cicatrici, il proprio dolore e la propria femminilità nella musica più autentica e coinvolgente - in una parola: bella - degli ultimi quindici anni
(Gianfranco Callieri)

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