Israel Nash
Israel Nash's Silver Season
[
Loose music
2015]

www.israelnash.com

File Under: Israel's desert dreams

di Fabio Cerbone (21/10/2015)

Inutile negarlo, avevamo scommesso parecchio su Israel Nash (Gripka si è perso per strada, un po' come l'identità iniziale del musicista...), e altrettanto avevano fatto molti lettori (la sorpresa di un disco come Barn Doors and Concrete Floors, in cima alle preferenze nel 2011). Su cosa avevamo scommesso? Sulla sua idea romantica e appassionata di Americana, uno scorazzare di chitarre e melodie che dai seventies dell'amato Neil Young arrivavano ai giorni nostri di Ryan Adams, sintetizzando il meglio del genere con un approccio classico alla canzone rock. Il precedente Rain Plans ha rappresentato in parte il disco della svolta o del "tradimento", se volessimo usare una metafora forte, diciamo semmai il salto nella direzione di una musica più dilatata, ambiziosa, dove l'amore incondizionato per il suono Crazy Horse prendeva il sentiero del deserto, della psichedelia, di composizoni meno dirette e più magmatiche.

Israel Nash's Silver Season completa tale trasformazione portandola all'eccesso: la versione "cosmica" dell'Americana proposta dal quintetto di Israel Nash ha oggi più a che fare con personaggi come Jonathan Wilson o Phosphorescent, per citare due contemporanei spiriti affini, ne segue le intuizioni (ma senza gli stessi risultati, sia detto) sconfinando in quei territori dove il desert rock incontra la tradizione country e l'acido della California, evocando i giorni del Laurel Canyon e di David Crosby. Il passaggio, come del resto svelava già il predecessore, non è indolore, tutt'altro: Israel ha perso il suo punto di forza, la fluidità e l'immediatezza delle canzoni, in una parola l'equilibrio del suo songwriting, preferendo le ambientazioni sonore, suggestioni dettate da una onnipresente pedal steel in veste un po' lisergica, chitarre colme di riverberi e brani che si dilatano, dai quasi sette minuti di L.A lately ad un trittico iniziale, cinque minuti e rotti ciascuno, che da Willow alla "pinkloydiana" The Fire & The Flood si avviluppa come un unicum strumentale.

Ecco un altro grosso problema di Silver Season, disco peraltro già salutato con un tappeto rosso dalla stampa inglese, innamorata persa di queste sonorità a prescindere forse dalla sostanza dei contenuti: le canzoni tendono ad assomigliarsi tutte, non c'è quasi soluzione di continuità e la predilezione di Israel Nash nel calcare la mano sull'utilizzo del falsetto le rende ancora più simili. Un cambio di registro quello vocale che non sembra affatto una scelta azzeccata: lo si nota in Lavendula e A Coat of Many Colours, così come nell'altra cavalcata dell'album, Strangers, ode al suono alternative country che si fa psichedelico ed espanso. Inciso nel nuovo studio casalingo di Israel, ribattezzato "Plum Creek Sound", a due passi dalla sua tenuta in Dripping Springs, Texas, luogo dove il songwriter del Missouri si è trasferito con la moglie e la figlia, Silver Season sembra avere assorbito fin nelle ossa i paesaggi del West e il fascino intramontabile di una lontana stagione del rock californiano. L'intoppo sta probabilmente nell'avere assimilato l'estetica di quel suono, in un puro gesto di riproduzione, eccedendo nella costruzione strumentale, ma senza dare più peso specifico ai brani: tutto alla fine diventa troppo vasto, come il riflesso della musica stessa di Silver Season.


    


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