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Bloody moon of Kentucky di
Gianfranco Callieri (29/02/2016)
Si
conoscono da una vita, Janet Beveridge Bean (Eleventh Dream Day) e l'amica d'infanzia
Catherine Irwin (senza dimenticare il bassista Dave Gay, reclutato nel 1989 e
da allora mai mancato all'appuntamento), ma in trent'anni di attività a nome Freakwater
hanno cambiato pochi musicisti e quasi mai hanno registrato al di fuori di Chicago.
Questa volta, invece, le due hanno deciso di fare ritorno alla terra d'origine
(Louisville, Kentucky), dove sono riuscite a mettere in piedi una formazione di
giovani musicisti locali comprendente la sei corde di Evan Patterson (Young Widows),
le tastiere di Morgan Geer (Drunken Prayer) e il violoncello di Sarah Balliet
(Murder By Death), quest'ultima spesso doppiata dal violino sbilenco o dal flauto
dell'australiano Warren Ellis (Bad Seeds, Dirty Three): il risultato è
il loro disco migliore dai tempi gloriosi di Old Paint (1995) e Springtime (1998),
i lavori tramite cui Bean e Irwin preconizzarono, purtroppo inascoltate o, al
limite, gratificate soltanto dalla devozione di una ristretta cerchia di ammiratori,
tutte le rigenerazioni del canone folk, in chiave più o meno indie, tentate da
un'infinità di epigoni nel corso del decennio successivo.
Scheherazade
mette in scena un susseguirsi di grande musica, di visioni sempre più ambiziose
e solenni, molto diverse dall'austerità tradizionalista degli esordi sebbene a
essa, in un certo senso, ancora fedeli: i suoi episodi si sviluppano in un clima
sospeso e vagamente surreale, sempre più o meno riconducibile all'universo delle
radici, anche se nei capitoli finali, affidati al gospel elettrico di Missionfield
e al country-rock in formato cinemascope dell'ultima, sofferta e rarefatta Ghost
Song, tutto sembra prendere una direzione melodrammatica, o persino
tragica e sinistra, come in una favola irrorata di veleno e spogliata di ogni
traccia di redenzione. Altrove, per esempio negli archi minacciosi dell'iniziale
What The People Want, le Freakwater riescono a restituire il carattere
sanguinario, spaventoso e fatalista delle antiche murder-ballad senza tradirne
l'ispirazione ma aggiornandone il profilo in composizioni dove serietà rock, polverosi
dagherrotipi country, cupe frustate blues e imprevisti brandelli di classica concorrono
al ritratto di un paesaggio mentale sospeso tra antico e moderno.
Nelle
canzoni del gruppo, l'angoscia e l'orrore si accompagnano all'assurdo, sia nelle
liriche, sia nei suoni. Dentro certi vortici, su tutti quello distorto e sovraccarico
di tensione della febbrile Down Will Come Baby
(con il suo forsennato incedere di mandolini, chitarre in feedback, legni straziati
e percussioni sotterranee), si capita per caso, come nella vita, e per caso se
ne esce, portandosi addosso non solo una generale sensazione di malessere, ma
anche la consapevolezza di aver ascoltato un brano in cui eleganza e provocazione
vanno di pari passo. Inoltre, Bolshevik And Bollweevil,
assieme al titolo dell'anno, presenta una marcia semiacustica di rara aggressività,
Falls Of Sleep ha la qualità lirica dei Walkabouts di Setting The Woods
On Fire (1994), Velveteen Matador sembra un inedito di Lee Hazlewood (contrassegnato
però da una chitarra solista alla Steve Stills) e il folk-rock countreggiante
di Number One With A Bullet potrebbe appartenere a un disco di Emmylou
Harris e nessuno si stupirebbe.
Davvero non serve altro per fare di Scheherazade,
nel suo continuo stimolare la carne e i nervi senza mai dimenticarsi di parlare
al cuore, una delle opere più intense di questa prima parte del 2016.