File Under:Soglie
immaginate di
Gianfranco Callieri (11/04/2016)
In
copertina potrebbe esserci l'acqua, o la promessa di un altrove, rispetto alla
quale l'artista dichiara di sentirsi "legato, incatenato, ai ferri". L'acqua,
una volta tanto, può non essere quella della terra d'origine, quel Golfo del Texas
dal quale Terry Lee Hale si mosse giovanissimo, per ritrovarsi prima a
Washington, poi nella piovosa Seattle (unico cantautore in mezzo a una pletora
di forsennati apostoli del grunge) e infine girovago in un'Europa spesso, per
lui (oggi residente a Marsiglia), più accogliente e riconoscente del continente
americano, bensì quella dell'Adriatico, della costiera romagnola da cui più o
meno provengono i Sacri Cuori, dal nostro così apprezzati da volerli come
gruppo d'accompagnamento e da utilizzare il loro motore creativo Antonio Gramentieri
in veste di produttore.
La sinergia tra Hale e le chitarre di Gramentieri,
le tastiere di Christian Ravaglioli, i tamburi di Diego Sapignoli e Denis Valentini,
il sax di Francesco Valtieri e il synth di "Francobeat" Naddei si muove lungo
una diagonale d'acqua e di pietra, consentendo alle canzoni del titolare di acquistare
sfumature e risonanze senza rinunciare all'ormai proverbiale semplicità, ma anzi
trovando all'interno di questa nuovi colori, nuove storie, nuovi punti di partenza
e di arrivo. Bound, Chained, Fettered adopera la tipica asciuttezza
della scrittura di Hale, e l'intonazione folkie delle sue 6 e 12 corde, per configurare
paesaggi e panorami alternativi, per esempio quello desolato e spettrale della
bellissima Scientific Rendezvous, originale
intreccio tra folk-blues, canzone d'autore e vedute industriali ottenuto lasciando
scorrere sullo sfondo un'onda di rumori e dissonanze in apparente contrasto con
la delicatezza di voce e accordi. Nella solare Signed Blue Angel ci sono
il deserto americano, Ry Cooder e un pizzico di Romagna, così come in Jawbone
c'è il rispetto intelligente di una classicità rock a tal punto compiuta da non
doversi servire d'altri orpelli, mentre nel blues incattivito dell'ultima Reminiscent,
o in quello più countreggiante della divertita The Lowdown,
la "presenza" ricorrente è quella di un sovrapporsi di ispirazioni - le radici
americane, le contaminazioni europee, il filtro italiano - mai sfacciato eppure
sempre in primo piano.
Detto che ballate lineari, icastiche e sobrie quali
la malinconica Acorns o l'altrettanto struggente
Can't Get Back (Just Like That), ormai, le sanno comporre in pochi,
lascia ammirati, nella scaletta peraltro concisa di Bound, Chained, Fettered,
la capacità di conservare nella coscienza la biografia nomade del titolare e il
folk mutante dei Sacri Cuori per inserirsi nella storia di oggi, nella contemporaneità,
con un realismo saturo e rigoroso, fatto di scenografie sonore ampie (a dispetto
dell'esibita essenzialità) e prive di dispersioni, rese vive da una costellazione
di dettagli fluttuanti tutt'intorno, ognuno di essi fondamentale benché in nessun
caso schiavo dell'esibizione di sé o del vuoto rituale del virtuosismo.
Questa
volta, insomma, invece di ricorrere alle solite locuzioni su frontiere, coreografie
roots e sogni americani da mercatino dell'usato, possiamo parlare di canzoni insaporite
dal mare, dal vento e dalla sabbia, canzoni piene di finestre e passaggi, di confini
varcati e ricomposti in cui la realtà e i suoi elementi vengono superati con grazia
dolente e un filo di tristezza. Come nelle fotografie di Luigi Ghirri (inquadrature
delle soglie tra "il nostro mondo interno e l'osservazione del mondo"), in Bound,
Chained, Fettered convivono i ritorni e le vie di fuga. Fuori dal protocollo e
dentro il movimento continuo delle cose: anche questo significa abitare il presente.