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american treasures di
Fabio Cerbone (03/05/2016)
Quanti
ritorni sono stati annunciati nella storia dei Jayhakws? Abbiamo perso
il conto, ma la band, festeggiando i trent'anni di carriera (era il 1986, a Minneapolis)
non si è mai veramente sciolta, restando un monito sullo sfondo delle carriere
soliste, sempre un po' ondivaghe, dei singoli membri. L'ultima parentesi firmata
con Mark Olson, da sempre l'anima gemella e il contraltare di Gary Louris, un
rapporto di amore odio il loro, non poteva durare, diciamolo francamente. Mockingbird
Time, nonostante solleticasse le fantasie di chi li aveva amati alla
follia nel loro momento di splendore alt-country, era un disco di maniera che
galleggiava al di sotto delle aspettative. Soprattutto perché arrivava a sette
anni dallo splendido sunto di Rainy Day Music, forse il loro album più sottovalutato
e vera espressione delle diverse anime del gruppo.
Altri cinque anni ed
ecco Paging Mr. Proust: il titolo, così affascinante e riflessivo,
sfoglia le pagine di una vita e subito si mette in scia al passato, tornando ai
giorni pop di Sound of Lies e Smile, i lavori del "tradimento" delle radici, e
in parte alla brezza west coast di alcuni epsiodi del suddetto Rainy Day Music.
In più, grazie anche alla presenza di Peter Buck dei Rem, che co-produce
il disco insieme a Tucker Martine e allo stesso Gary Louris, qualche seme psichedelico,
morbido a volte, altre più irruente ed elettrico, fa capolino nel repertorio,
rendendo Paging Mr. Proust una raccolta caleidoscopica, in prima battuta senza
particolari picchi, ma nel suo insieme molto coerente. Lo è certamente nei confronti
del loro percorso discografico, assai più di Mockingbird Time, poiché Louris,
oggi più che mai tornato nel ruolo di condottiero dei Jayhakws, ha sempre guardato
oltre il country rock delle origini: da qui l'intreccio 60s e neo-psichedelico
di Lost in the Summer, le dolci melodie beatlesiane
che ammantano Lovers of the Sun, gli effluvi
e i colori di Pretty Roses in Your Air, spezzata da una chitarra in fremito
da acid rock.
La band torna nei ranghi del quartetto che registrò Rainy
Day Music, con l'unico superstite della prima era, insieme a Louris, ovvero sia
il bassista Marc Perlman, quindi Tim O''Reagan alla batteria e la pianista Karen
Grotberg: la coesione compositiva è palpabile e tutta la prima ideale facciata
scivola via in scioltezza, tra l'apertura rassicurante di Quiet Corners & Empty
Spaces, folk rock di casa e scintille di jingle jangle sound, e la sua coda
più pop e aggressiva in Leaving the Monster Behind, o ancora certo raffinato
e arioso gusto westcoastiano in Isabel's Daughter
(i Fleetwood Mac di Rumors stanno sempre a guardare...). Un paio di cadute di
tono si ravvisano: Ace sperimenta coi ritmi e pasticcia tra disturbi elettrici,
Comeback Kids evoca persino i Wilco, ma si ferma a un passo da certo generico
indie rock con ascedenze sixties.
Poco importa, vanno annoverate negli
incidenti di percorso di una band che non vuole fermarsi alla solo ripetizione
di un cliché (un po' accade con The Devil Is in Her Eyes,
roots rock alla maniera del loro capolavoro Hollywood Town Hall, o nel finale
acustico di I'll Be Your Key, sulla linea Crosby Stills & Nash), ma trova
ancora la passione per lanciarsi - e qui piace pensare che Buck abbia giocato
un ruolo - in un garage rock trascinante come The Dust of Long Dead Stars,
compreso il crescendo chitarristico. Un rientro che forse non farà epoca, ma degno
della loro piccola grande storia.