Nel
primo album confezionato dopo il decesso del padre Charlie (jazzista di fama e
vaglia, scomparso a Los Angeles, nel 2014, quasi settantasettene), Josh Haden,
dal 1996 cantante, bassista, compositore e forza creativa dietro alle canzoni
degli Spain, dice di aver voluto celebrare le proprie "radici familiari",
e in ispecie quelle del celebre e amatissimo genitore, un figlio del Midwest cresciuto
ascoltando sonorità tradizionali, country da programmazione radiofonica, folk
da festa di paese perduto in qualche remota provincia della Heartland.
Ecco spiegato, quindi, perché Carolina, realizzato da Haden con
l'aiuto di pochi e selezionati musicisti tra i quali la sorella Petra al violino
e lo specialista Kenny Lyon alle chitarre (nonché dietro il bancone del mixer,
in un ruolo di produttore da costui già rivestito per gli splendidi album di Mark
Curry), risulti essere il disco più rootsy degli Spain, quello meno caratterizzato
da atmosfere noir (invece predominanti nel penultimo Sargent
Place [2014]) o dal pensoso gospel-jazz al rallentatore delle prime
opere.
Il tono generale è sempre quello di un lento, scandito e meditabondo
slowcore ancora una volta incentrato sulla metodica scansione di ricordi e stanze
elettroacustiche del pensiero, alternati in una circolarità di gesti e suoni che
non può non ricordare, in un certo senso, "l'epica minimale" (la definizione è
di Luca Briasco) appartenuta alle pagine dello scrittore Kent Haruf e alla sua
Trilogia della pianura di recente ripubblicata, anche in Italia, da NN
Editore. Pure qui, tra le note rade e concentrate di Carolina, si lavora per sottrazione
e per sintesi, proprio come nella prosa dell'autore del Colorado, rifiutando ogni
ipotesi di artificio letterario (o musicale) per contrapporgli un'orchestrazione
lieve di sfumature, prospettive, dettagli, particelle. Con l'eccezione del fulmineo
affondo elettrico di For You e dei rintocchi
quasi post-punk della cupa, bellissima Lorelei,
nei brani scritti da Haden per il disco le sensazioni fluttuano attraverso sfioramenti
impercettibili di senso e un continuo concatenarsi di minuzie, al punto da trasformare
anche i protagonisti delle storie più controverse - su tutte la funerea The
Battle Of Saratoga, dove le immagini della Guerra Civile americana
si sovrappongono al distorto paesaggio mentale di un tossico in crisi d'astinenza,
nella New York degli anni '60 - nei paradigmi di una quotidianità cadenzata da
un eterno ritorno alle radici.
Come il padre seppe trasferire l'umanità
agreste del country-folk negli schemi metropolitani del jazz, oggi Josh Haden,
ispirandosi forse più di tutti a John Prine, cerca di fare in modo che le sue
tracce sonnolente, ipnotiche e desiderose di appiccicarsi alla sostanza ultima
delle cose acquistino lo stesso fondo di umanesimo e spontanea schiettezza alt.country.
Ma il country per banjo polveroso di The Depression, o il triste valzer
d'altri tempi della sofferta One Last Look, li abbiamo ascoltati troppe
volte, e non solo nei dischi degli Spain, perché possano emozionarci di nuovo.
Saper toccare l'animo dell'ascoltatore ricorrendo al minimo indispensabile di
complessità negli arrangiamenti è un'arte padroneggiata solo da pochissimi cantautori
- il citato Prine, Guy Clark, Steve Goodman, Billy Joe Shaver. E pur con tutta
la stima del caso, Josh Haden, rispetto a questi nomi, continua a giocare in ben
altri, meno gloriosi campionati.