Neil Young
Peace Trail
[Reprise
2016]

www.neilyoung.com

File Under: Neil's struggles

di Fabio Cerbone (20/12/2016)

È lo stesso Neil Young a toglierci dall'impiccio, quando canta Can't Stop Workin', denunciando in qualche modo la sua perenne ricerca, la sua iper-produzione a qualsiasi costo, quel restare sempre all'erta: per non arrugginire, per bruciare in continuazione. Le sue ultime battaglie donchisciottesche le abbiamo apprese nel recente tour di The Monsanto Years, quindi nel successivo e sconclusionato disco dal vivo Earth, al fianco dei giovinastri Promise of the Real. Sono coerenti con la sua storia: l'ecologismo, la salvezza del pianeta dalla grinfie delle multinazionali, la lotta per i diritti della terra e dei suoi popoli più bistrattati, primi fra tutti i nativi americani, per cui ha avuto spesso una voce compassionevole (Crazy Horse, non per nulla). A tutto ciò potete aggiungerci l'attualità americana del ritorno dello spettro razzista, la confusione sotto i cieli del populismo e lo scontro quotidiano con il mondo dell'informazione omologata e della tecnologia.

Sono alcuni dei temi pressanti che covano sotto gli accordi scarni e l'ambientazione assai modesta di Peace Trail, ultimo (ma non ultimo, siamo pronti a giurarlo) anello di una lunga catena di "instant record" che di tanto in tanto lo hanno spronato alla lotta. Dieci canzoni catturate in quattro giorni di sessioni con Jim Keltner alla batteria e Paul Bushnell al basso, badando all'urgenza del messaggio, come se Neil Young non volesse perdere un minuto della sua veemenza verbale ("ero molto più interessato in quello che avevo da dire che non a come lo dovevo dire", ha ribadito Young in una recente intervista).

Con buona pace del contenuto musicale e delle melodie, qui sacrificate in funzione di una necessità probabilmente più immediata per l'uomo e assai meno per il songwriter. Il risultato è confuso, intrigante a livello ritmico, ma soltanto abbozzato, volutamente incompleto: dal fiero schieramento accanto alle lotte dei Sioux del North Dakota, che ha ispirato una parte di Peace Trail (il testo migliore della raccolta), quintessenza dello Young scorbutico, scuro ed elettrico, Show Me (uno rimasuglio di Harvest Moon? La sensazione è quella) e più ancora esplicitamente Indian Givers, fino alle meditazioni personali di Glass Accident (qualcosa pare addensarsi attorno al matrimonio in frantumi, in un country rock sbilenco che resta tra gli episodi più riusciti dell'intero lavoro) e My New Robot nel finale.

Spunti più che canzoni, tentativi più che arrangiamenti, con la curiosità di capire dove il buon Jim Keltner andrà a parare con il groove dei suoi tamburi, l'unica chiave di fascino perverso dell'album, colto all'inseguimento delle sconnesse proposte di Neil Young. Altro modo non c'è per affrontare scherzi come Texas Rangers e Terrorist Suicide Hang Gliders o ancora la tediosa parabola di resistenza narrata in John Oaks, brani a volte scossi da una lancinante armonica distorta e poco più, galoppate di chitarra acustica che portano raramente da qualche parte, melodie svagate perse per strada. My Pledge recupera persino famigerati effetti vocali con l'auto-tune, che credevamo accantonati per sempre, e nella chiusura di My New Robot il tutto straripa, come se nascesse insieme un mostro a due teste, Woody Guthrie con l'epopea discografica di Trans.

Anche al netto di una musica così raffazzonata, le liriche stesse di Young appaiono tanto generose quanto semplicistiche, a tratti in affanno sul filo della retorica: un campione assoluto quando si tratta di scavare nell'oscurità dell'anima, in quello spleen esistenziale che lo ha reso un maestro, Neil ha sempre avuto qualche problema a intestarsi il titolo di folksinger protestario. Da Hawks and Doves a The Monsanto Years passando per Living with War pareva già chiaro che non fosse il suo punto di forza. Peace Trail non fa che ribadirlo.


    


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