Neil Young + Promise of the Real
The Visitor
[
Reprise
2017]

neilyoung.com

File Under: broken promises

di Fabio Cerbone (13/12/2017)

Soltanto l'imprevedibile e provocatorio temperamento di Neil Young, segno artistico al quale siamo ormai abituati, poteva decidere di pubblicare un nuovo album nella stessa settimana in cui i suoi sterminati archivi online aprivano le porte agli appassionati. E così, felici di perdere la bussola fra centinaia di canzoni più e meno note, capolavori e oscure perle seminate in cinquant'anni e passa di carriera, il rischio è che The Visitor resti una nota a pié di pagina. Se poi il contenuto è alquanto discutibile, zoppiccante e sconclusionato, come effettivamente capita di annotare seguendo la scaletta di The Visitor, allora il contrasto si fa ancora più palese.

Registrato con l'urgenza che gli è solita, pescando fra diverse sessioni e riprendendo i fili della collaborazione con i Promise of the Real dei fratelli Lucas e Micah Nelson, il disco insegue la linea polemica del predecessore The Monsanto Years (e della gemella registrazione dal vivo, Earth) rovesciando tuttavia le pulsioni ecologiste in una raccolta più strettamente politica e sociale. Neil Young non nasconde dunque la rabbia e la delusione del dopo Trump (i due bizzarri minuti di When Bad Got Good, da dimenticare in fretta) e di un'America che sembra ribaltare o peggio distruggere coscientemente tutti valori in cui il cantautore canadese ha dichiarata fede. Lui stesso precisa la posizione, come già altre volte era capitato, di "espatriato" e "ospite" degli Stati Uniti: i primi versi di Already Great, chiaro riferimento sarcastico allo slogan della campagna elettorale di Trump, recitano infatti: "I'm canadian by the way/ And I Love the USA". Da qui parte un viaggio senza capo né coda, dove i fantasmi dei Crazy Horse (nella stessa Already Great e nel pulsare funk di Fly Ny Night Deal) più nerboruti e nervosi si impossessano dei Promise of the Real, senza tuttavia la stessa qualità delle canzoni, che restano scarti, tentativi, brutte copie (il blues strascicato e nonsense di Diggin' a Hole) con la sola scusa dell'istinto a tenerle in piedi.

Ci sono lampi di una scrittura classica che si affacciano in Almost Always (melodia e arrangiamento che echeggiano From Hank to Hendrix da Harvest Moon), Change of Heart e nello stiracchiato finale di Forever, dieci minuti fracamente ridondanti, ma tra le percussioni superflue di Tato Melgar (che nella circense Carnival si inventano persino un improbabile e indigesto incrocio fra Santana e Tom Waits) e il tono dimesso dei musicisti, si finisce per accorgersi che The Visitor abiterà quella zona grigia di scontrosi e stravaganti dischi, da Greendale a Fork in the Road, che di tanto in tanto Neil Young ha messo insieme con troppa generosità. E non lo salva certo l'idea di riscattare la sua vena barricadera e politica, che diciamolo non è mai stata il suo punto di forza, quando consegna anthem elettrici un po' rimasticati come Stand Tall o pretenziose visioni sul futuro del tenore di Children of Destiny, materiale che torna alle orchestrazioni sopra le righe di un Living with War e che avevamo tranquillamente dimenticato.

Scandagliamo dunque desiderosi l'immensa distesa degli archivi e lasciamo The Visitor alle statistiche, trentanovesimo disco di studio di Neil Young.


    


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