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roots-rock riot girl di
Domenico Grio (02/04/2018)
Giunge
a distanza di neppure un anno dalla pubblicazione del disco
d'esordio, questo nuovo capitolo dell'avventura discografica di Sarah
Shook. Ma se Sidelong ci aveva stupito per la freschezza, l'efficacia comunicativa
e la capacità di rivitalizzare una scena Americana al femminile piuttosto infiacchita
(tranne qualche sporadica eccezione, s'intende), Years ci coglie
ancor più di sorpresa, sia perché inaspettato e "prematuro" sequel, sia perché
raro e mirabile esempio di "promessa mantenuta". Se è vero, infatti, che dopo
l'ascolto del primo lavoro era piuttosto difficile non dare credito a questa ragazzotta
del Nord Carolina, è altrettanto vero che era tutt'altro che scontato che la stessa
ci consegnasse, per di più in tempi così ristretti, un altro piccolo capolavoro
di garage campagnolo, tosto e genuino.
Così, piuttosto che dover tristemente
attuare un cambio di prospettiva, dovendo affrontare un dibattito sull'ennesimo
giovane di grandi speranze da impacchettare e rispedire impietosamente al mittente
per manifesta sopravvenuta inabilità creativa, ci troviamo a riaccendere i riflettori
su un'artista che da next big thing, passa di diritto allo status di autentica
e tangibile icona dell'alt-country. Years in realtà più che una conferma, rappresenta
un ulteriore notevole step, migliorando la formula già utilizzata per la realizzazione
del precedente disco e strutturando forme più compiute e solide all'interno del
tessuto sonoro. Sarah sale di livello, canta meglio, più controllata e matura
proprio sotto il profilo dell'espressività vocale. I brani, pur perdendo probabilmente
qualcosa in istintività ed immediatezza, si sviluppano in maniera più articolata,
mentre il sound continua ad essere vigoroso, ruvido ma adeguatamente bilanciato,
frutto del grande affiatamento dei Disarmers (si segnalano la pedal steel
di Phil Sullivan e le chitarre di Eric Peterson) e di un sempre efficace lavoro
di messa a punto, elaborato in fase di registrazione e mixaggio.
Good
as Gold è la splendida ballad che apre l'album, accompagnata da un
video realizzato con spezzoni estrapolati da ultraclassici del cinema romantico
hollywoodiano che conferiscono al brano una patina retrò e un elegante leggerezza,
distogliendo con discrezione lo sguardo dai tormenti d'amore dell'autrice. Tutto
il disco si muove comunque lungo il filo della tradizione, è solo l'approccio
di Sarah a marcare la differenza, a conferire quell'originale mood eccentrico
ed anticonformista, a volte più ligio alle regole (Over You - Damned
if I Do, Damned if I Don't - Heartache in Hell), a volte sbilanciato
verso una sorta di cowpunk a giri ridotti (What it Takes)
o più canonicamente dirottato in ambito roots-rock (Lesson), a volte ancora
intriso dalla calda sabbia del deserto (The Bottle Never
Lets Me Down e Parting Words). Il disco nel suo complesso ed
in ogni singolo episodio, qualora non si fosse ancora capito, impressiona per
qualità compositiva e valenza estetica, la band ha consapevolezza, idee ben chiare
ed è in un evidente percorso di crescita.
Il risultato ovvio è che ci
troviamo per le mani una tra le migliori uscite discografiche di questo 2018 ma,
soprattutto, abbiamo intercettato una musicista in viaggio che si è imposta mete
ambiziose e che può facilmente rappresentare uno dei primi tasselli utili ad avviare
quel ricambio generazionale che, presto o tardi (God Bless Lucinda!) si renderà
indispensabile.