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Under: punk roots rebels
di Fabio Cerbone (30/01/2019)
I Used to Be Pretty,
come dare torto a Chris Desjardins, in arte Chris D. Conserviamo
tutti un ricordo appassionato di quegli anni infausti, alba dei rampanti
Ottanta, quando cercare il rock’n’roll più sordido e pulsante significava
mettere le mani nel fango, rimestare nei bassifondi, inseguire vere e
presunte scene dell’underground che riannodavano i fili del passato, verniciandoli
a nuovo con una tonnellata di energia e personalità. The Flesh Eaters
erano parte integrante di quel subbuglio, costola deformata del punk
losangelino che sotto la direzione di una specie di poeta squattrinato
nei panni del rocker romantico (Desjardins vantava trascosi di critico,
attore e animatore della California più alternativa) richiamava a sé le
migliori menti della stagione (lui stesso aveva posto il sigillo sugli
esordi di Gun Club e Dream Syndicate, facendo da talent scout e produttore).
Sfruttando le sue liriche infarcite di sogni beat, film horror, poesia
simbolista e ribellione punk, la band seguì le gesta sempre instabili
del leader stesso: una formazione in divenire, pronta a raccogliere pezzi
per strada, cambiando pelle e obiettivo di disco in disco.
Uno in particolare rimase scolpito nella storia del periodo, A Minute
to Pray, A Second to Die (1981), terzo della serie e primo a servirsi
di un gruppo di musicisti stellare, che agguantava i talenti di Dave Alvin
e Bill Bateman dai Blasters, John Doe e DJ Bonebrake dagli X e Steve Berlin
(allora Plugz e poi nei Los Lobos). La stessa combriccola si è riunita
in rare occasioni dal vivo, a partire da un’apparizione al festival inglese
All Tomorrow’s Parties nel 2006, con la seria promessa di mettersi
al lavoro per una seconda venuta. Il tempo è giunto e I Used to
Be Pretty li ricolloca esattamente nel punto in cui avevano interrotto
il loro sodalizio. Ci sono gli strali della chitarra infuocata di Dave
Alvin, il sax martellante e grasso di Steve Berlin, i rintocchi percussivi
delle marimba di DJ Bonebrake, una sezione ritmica (John Doe e Bill Bateman)
che sbuffa a perdifiato, mentre Chris D. impazza con la sua voce sgraziata,
una specie di Jim Morrison in veste stracciona, che sprona al galoppo
la band, fra roots rock, scudisciate garage punk e acido blues.
Undici tracce, di cui tre cover illuminanti per scandire lo spirito dell’intera
operazione (Cinderella, degli ambasciatori del garage rock The
Sonics; She’s Like Heroin to Me, dall’esordio leggendario dei Gun
Club; una demoniaca e scalpitante The Green Manalishi, dai Fleetwood
Mac dell’era Peter Green), sei rielaborazioni di materiale già edito e
due vere e proprie novità (l’apripista e manifesto Black
Temptation, la chiusura da sciamani con i tredici minuti di
Ghost Cave Lament, in fregola psichedelica
alla Doors). Furbesco calcolo? Niente affatto, perché ben pochi potranno
ammettere di conoscere Youngest Profession, House Amid the Thickets
o Miss Muerte, materiale “minore” che attinge alla storia meno
conosciuta dei Flesh Eaters, parte integrante di album un po’ dimenticati
che hanno arricchito la discografia dalla prima metà dei Novanta fino
al più recente dispaccio, risalente al 2004. Inoltre il trattamento irriverenre
che questa band dedica ai brani sembra imprimere ben altro passo: l’alchimia
è intatta, l’esperienza è dalla loro parte e i Flesh Eaters versione 2019
sono invecchiati con onore, senza rinnegare quelle intuizioni, fra veemenza
punk e radici rockabilly, che rendono Pony Dress o The Wedding
Dice roba che scotta.