Neil Young & Crazy Horse
Colorado

[Reprise 2019]

neilyoungarchives.com

File Under: Mother Earth's rock songs

di Fabio Cerbone (29/10/2019)

Look at Mother Nature on the run... Neil si struggeva nel lontano 1970. E qual è lo stato di salute della Madre Terra al tramonto del 2019? Malaticcia, ad essere ottimisti, forse ancora capace di risollevarsi, ma con sempre meno tempo a disposizione. Si potranno imputare mille difetti a Neil Young, testardo, sconclusionato, inarrestabile nella sua produzione discografica, a dir poco abbondante, ma non la sua buona fede nello sbandierare il tema dell’ecologismo e della salvezza del pianeta, soggetto che gli stava già a cuore nel 1990, allor quando chiudeva la sgroppata elettrica di Ragged Glory con l’innodico mantra intitolato Mother Earth (Natural Anthem). Di recente si è fatto spazio anche alla reprimenda anti-comporation di Monsanto Years, ingenua e generosa come appartiene al carattere dell’artista, altrettanto immediato nel dare forma a questo ultimo anello della catena, Colorado.

Questa volta però sono riapparsi al suo fianco i Crazy Horse, e le attese per una nuova scintilla lasciavano presagire un seguito di Psychedelic Pill, quel raccolto straripante di elettricità e beata improvvisazione che suonava come la celebrazione dell’arte di un suono precario. Colorado invece è un disco che si rivela più ondivago e concentrato sul gesto ribelle, frontale e politico del messaggio, assai meno sulle dinamiche delle composizioni. Registrato in fretta ed espressamente dal vivo come si conviene alle alchimie dei Crazy Horse, in uno studio delle Rocky Mountains (esperienza poi immortalata nel documentario Mountaintop, presentato in queste settimane), è un album che abita il lato “minore” della produzione con il fedele gruppo di riferimento, quel volto meno influente eppure di (piacevole) contorno posizionato fra Broken Arrow e Greendale.

Sono gli episodi elettrici ad apparire, a una prima lettura, i più azzoppati: la tensione e lo slancio, anche imperfetti, di Psychedelic Pill, qui si trasformano in qualcosa di raccogliticcio, più utile a calcare la sostanza del messaggio, meno a rendere appagante la forma. Le lungaggini di She Showed Me Love ne simboleggiano pregi e difetti: da un certo punto in poi la canzone sembra letteralmente sfaldarsi, trascinandosi per inerzia fra le crisi istintive della chitarra di Young. Un esercizio sentito troppe volte, buona la prima anche se un po’ con il fiato corto: così capita in Help Me Lose My Mind, che alterna ferocia elettrica (e di significato) e fragilità delle voci, che si aprono alla melodia nel ritornello, e altrettanto si ripete nel cruento rimbrotto di Shut It Down. Milky Way è erratica e irrisolta, tra i momenti più sospesi del disco: vorrebbe inseguire certe atmosfere crepuscolari appartenute a dischi come Sleeps with Angels ma non ne raggiunge il pathos. I toni marinareschi di Rainbow of Colors sono infine quanto di più scontato potesse uscire dal cilindro dei Crazy Horse, una marcetta rock picaresca con una melodia elementare che non appassiona (e un testo che anela alla fratellanza e che appare altrettanto naif).

Paradossalmente sono proprio le stazioni acustiche, quando la collera lascia il posto all’intimità, a sostenere le ragioni di Colorado: l’apertura folk sghangherata e dylaniana con Think of Me, le docili melodie pianistiche di Green is Blue ed Eternity, quasi fanciullesche nella loro armonia (e con falsetto younghiano d’ordinanza), il finale con I Do, canzone che rilfette tutta la delicatezza e lo spleen esistenzialista del Neil Young ombroso, che canta sussurrando a cuore aperto.

L’abbandono della baracca da parte di Frank Sampedro, ritirato nel paradiso delle Hawaii, era noto da tempo, ma la ricomparsa di Nils Lofgren come sostituto - da sempre un Crazy Horse onorario che ha gravitato intorno all’amico Neil Young - non ha scalfito gli equilibri, tutt’altro: è un apporto defilato, marginale, e di fatto la carta vincente delle sue maggiori qualità tecniche non viene affatto giocata, preferendo semmai un’intesa con Young che rispetti tutte le “approssimazioni” e la grezza scorza della band, che in Colorado non fa danni, ma neppure compie miracoli.


    


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