American Aquarium
Lamentations

[New West 2020]

americanaquarium.com

File Under: rock delle radici

di Gianfranco Callieri (07/05/2020)

C’è molta carne al fuoco, almeno a livello concettuale, nel nuovo album — l’undicesimo, live compresi, dal 2006 a oggi — degli American Aquarium da Raleigh, Carolina del Nord, e se questa è senz’altro una buona notizia per un gruppo in procinto di sciogliersi dieci anni fa, non è detto lo sia altrettanto per chi, da certa musica, pretende un contatto epidermico e un apprezzamento non vincolato alla decifrazione di temi, testi e messaggi. Sempre più creatura nelle mani del cantante, chitarrista e autore BJ Barham, qui di nuovo accompagnato dalla sei corde di Shane Boeker (in formazione dal 2017 appena) e per il resto alle prese con altri quattro musicisti reclutati giusto l’anno scorso, gli AA hanno infatti confezionato, con Lamentations, sia il loro disco più ambizioso, costellato da riferimenti al Vecchio Testamento, questioni metafisiche e osservazioni di stampo sociologico, sia quello in cui la formula delle loro canzoni — un roots-rock operaio e romantico dalle sfumature a tratti countreggianti — si cristallizza in un linguaggio che vuole programmaticamente mostrarsi trasparente, concreto e privo di artifici, correndo quindi in diverse occasioni il rischio di scivolare nelle secche del “già sentito”.

Significativo, in questo senso, è l’incedere di The Day I Learned To Lie To You, secondo Barham l’episodio più importante dell’intero lavoro, in parte modellata sulle ballate countrypolitan anni ’60 e ’70 di Loretta Lynn, in parte ammantata dal respiro soul soffiato anche sulle atmosfere “sudiste” di quel Burn. Flicker. Die. nel 2012 prodotto da Jason Isbell: intrigante nelle premesse, per carità, ma nei fatti nulla di nuovo, o di più intenso, rispetto alla materia country-soul con la quale, anche in tempi recenti, si sono cimentati in moltissimi. Eppure, al di là della sorpresa per l’iniziale Me + Mine (Lamentations), in cui Barham e soci architettano un crescendo rockista in grado di ricordarci perché la loro ragione sociale derivi da un brano dei Wilco, è nell’honky-tonk elettrico di A Better South, nei rintocchi semiacustici di How Wicked I Was o nello sferzante r’n’r alla Lucero di Before The Dogwood Blooms (fino all’apoteosi classic-rock di una The Long Haul così svergognatamente anni ’70 da sembrare un pezzo di Jackson Browne o Warren Zevon, e da avvincere con la stessa efficacia appartenuta a costoro) che va ricercata la più istintiva, elementare chiarezza di chi non teme di puntare al cuore e si dimostra capace, ogni volta, di farlo scopertamente.

Perciò sì, diciamolo pure: Lamentations non contiene le canzoni migliori dell’epopea degli AA. Ciò nonostante sa trasmettere la sensazione i suoi dieci capitoli siano stati composti sotto l’azzurro dei cieli a perdita d’occhio, in mezzo alla polvere delle praterie sconfinate, sopra l’asfalto di quelle autostrade le cui carreggiate si snodano per migliaia di chilometri, e questa sensazione di vastità, in tempi di reclusione forzata (ancora vigente mentre scrivo queste righe), ha l’effetto di un balsamo nei confronti del quale provare gratitudine: ricordandosi di come, nelle stupore delle nostre giovinezze, l’amore per la sincerità e l’asciuttezza di questo rock americano sia nato anche nell’illusione di correre attraverso i segreti di una terra diversa e promessa.


    


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