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The Felice Brothers
From Dreams to Dust
[Yep Roc 2021]

Sulla rete: thefelicebrothers.com

File Under: dust to dust

di Nicola Gervasini (01/10/2021)

Davvero strana la storia dei Felice Brothers da un punto di vista del “successo” (per quanto quantificabile esso possa ancora essere). Osannati un po’ ovunque anche a dismisura ai tempi di Tonight at the Arizona e dell’omonimo del 2008, paradossalmente non giustamente riconosciuti per il loro disco più maturo (Yonder is the Clock), la band di Ian e James Felice vive da qualche anno una sorta di oblio. Non nelle nostre pagine, dove non abbiamo mai smesso di notare che, dopo aver perso un po’ di credibilità sbagliando il disco all’insegna del “proviamo ad essere moderni anche noi” (Celebration, Florida del 2011), la loro produzione dell’ultimo decennio ha avuto una linea qualitativa tutt’altro che discendente.

Anzi, From Dreams to Dust potrebbe addirittura rivelarsi il loro disco migliore, perché sarà la forza dell’esperienza, ma stavolta i quattro (ai fratelli si aggiungono oggi Will Lawrence e Jesske Hume) ce l’hanno davvero fatta a unire la loro grande ispirazione da American-Band, ben evidenziata da album già molto validi come Undress o Life in the Dark, con uno spirito più in linea con gli anni Duemila. Che sia la volta buona che riusciamo a farli ascoltare anche a chi li riteneva “troppo country”? Non che ci siano grandi stravolgimenti, ma la straordinaria apertura di Jazz on the Autobahn, storia di una coppia in fuga da vari disastri, penso sia un brano che ha una carica emotiva che travalica i gusti di genere.

Per il resto, il disco vive sul contrasto tra tempi più movimentati (To-do List) e ballate sofferte, con testi che riflettono sullo scorrere del tempo e la consapevolezza di stare invecchiando in un mondo che non si ha più la forza (e forse la voglia) di cambiare (l’evocativa Land Of Yesterdays). Basta comunque sentire il drumming ossessivo di Money Talks (altro episodio davvero notevole) per capire l’ottimo sforzo produttivo della band, che per il resto offre un repertorio comunque in linea con la propria filosofia, come le sognanti aperture melodiche dell’ipnotica Valium, le riflessioni sulla celebrità di Inferno (“Who's that singing in the land of the falling rain? I think it's Kurt Cobain”) e l’ottimo up-tempo di Celebrity X, e qualche country strascicato come Silverfish.

Tra gli ospiti del disco troviamo i Bright Eyes Nathaniel Walcott alla tromba e Mike Mogis alla pedal steel, ma in generale i quattro hanno fatto tutto da soli, dimostrandosi ormai gruppo su cui contare a colpo sicuro... Non perdendo tra l’altro mai quel pizzico di ironia che li ha sempre caratterizzati, quella che negli otto minuti conclusivi di We Shall Live Again, bellissimo canto corale di riconciliazione con lo spirito, gli fa cantare Anche se le nostre religioni sono le stesse dei piccioni, da Francesco d'Assisi ai fan degli AC/DC, tutti vivremo di nuovo, non compromettendo la tensione emotiva di un disco davvero intenso.


    



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