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Buffalo Nichols
Buffalo Nichols
[Fat Possum 2021]

Sulla rete: buffalo-nichols.com

File Under: blues is alive


di Fabio Cerbone (01/11/2021)

Colonna sonora di un’anima errante, come lo definisce lo stesso Carl “Buffalo” Nichols, l’omonimo album di esordio di questo autore e chitarrista cresciuto fra il Texas (dove ora risiede, Austin naturalmente) e il più freddo Wisconsin (Milwaukee) dice molte cose, e tutte importanti, in uno spazio ristretto: otto brani, mezz’ora scarsa di musica, quello che un tempo sarebbe stato un primo assaggio o un fugace ep di presentazione al mondo, è invece un disco fatto e finito che mostra la personalità adulta di un musicista allevato dalla solitudine, dal sentirsi emarginato, “black man in a white world” avrebbe detto qualcuno.

L’isolamento però arriva anche dall’avere scelto consapevolmente, dopo anni di tentativi in rock band della scena locale di Milwaukee e persino allontanamenti volontari tra Berlino e l’Ucraina, senza una vera e propria direzione, di ripercorrere il linguaggio antico del blues, con la convinzione quasi ostinata di renderlo ancora attuale, cronaca di questo tempo e delle sue ingiustizie. C’è una canzone in particolare a sancire questo parallelo, si intitola Another Man, è potente pur usando pochissime armi musicali, ha il fantasma di George Floyd che la percorre in lungo e in largo, ma anche la spietata osservazione di un’America che non è cambiata, da quando cent’anni prima la nonna di Buffalo Nichols doveva “tenere la lingua a freno” se non voleva finire nei guai, e un oggi che non pare affatto avere stabilito una parità nei diritti e nell’esistenza di un afro-americano.

Il primo disco di un solista blues da vent’anni a questa parte per la Fat Possum, come annuncia trionfalmente un’etichetta che nel frattempo ha deciso di frequentare lidi più inclini all’indie rock e alle evoluzioni della canzone pop moderna, è in verità assai distante dallo stesso suono che ha caratterizzato così esplicitamente la casa discografica ai suoi primordi. Qui non troverete, se non in un fugace sprazzo (l’elettrica, ossuta e limacciosa Back on Top), il sudore del downhome blues e dei juke joint, e neppure i fantasmi dei maestri Burnside e Kimbrough: Buffalo Nichols vuole recuperare l’essenza di un country blues che si fa racconto sociale, scendendo in strada per narrare l’esistenza personale del musicista e per metterla a confronto con le storture dell’umanità. Così facendo predilige il vibrare acustico di una National guitar, il respiro del Delta che incontra l’arte vagabonda dei folksinger, annunciando il viaggio solitario con il manifesto di Lost & Lonesome.

L’intera prima parte della fulminea “predica” di Buffalo Nichols si crogiola in queste atmosfere: un beat minimale sospinge le ombre di un’ossessiva Living Hell e della più circolare melodia di Sick Bed Blues, mentre This Things placa l’anima in subbuglio coinvolgendo un dolce violino ad evocare una squisita melodia rurale, in cui la terra adottiva del Texas sembra giocare un ruolo fondamentale. Lo stile di Nichols è in equilibrio perfetto (e di una maturità sorprendete per essere al debutto) tra quella generazione di nuovi tradizionalisti blues che ha avuto le sue punte di diamante in Alvin Youngblood Hart e Corey Harris (legame da sentire nel lavorio della slide e delle accordature di How to Love) e le modulazioni d’autore di personaggi quali Eric Bibb o Keb Mo’ (la citata Another Man e il suo apporto lirico, così come, su un altro versante, il finale elettrico e più arrangiato, con tanto di organo, di Sorry It Was You), sebbene sia la voce, calda, pastosa e stentorea in ciò cha ha da esprimere, a bagnarsi nel grande fiume di questa storia pluri-centanaria chiamata blues.

Lo fa prendendo una posizione che vuole esprimere semplicità nell’approccio e intensità nei versi, persuaso che ci sia ancora spazio per questa musica sul teatro della contemporaneità e non nella consolazione di un museo, dove magari restare a contemplarla.


    


<Credits>