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Anders Osborne
Orpheus and the Mermaids
[5th Ward Records 2021]

Sulla rete: andersosborne.com

File Under: folkways


di Nicola Gervasini (07/04/2021)

Forse abbiamo fatto bene a non perdere di vista Anders Osborne in questi anni, un autore che durante i 90 si era fatto valere con alcuni dischi in puro stile New Orleans Sound come Which Way to Here o Living Room, che avevano avuto anche un buon ritorno di critica. Successivamente Anders aveva spesso provato nuove strade, a volte più cantautoriali, entrando anche in area Van Morrison/Astral Weeks (Coming Down del 2007), o altre volte tornando al primo amore, come Buddha and the Blues del 2019 o ancora la collaborazione con i North Mississippi Allstars del 2015 (l’album era Freedom & Dreams). La sua discografia si è fatta però via via sempre più nascosta dai riflettori, quasi che il personaggio abbia preferito rimanere nelle retrovie e comunicare solo con una ristretta cerchia di appassionati di un certo mondo musicale, nonostante, anche nei suoi lavori meno ispirati, abbia sempre dimostrato quella grande cura nella produzione che non lo ha mai fatto slittare nel facile home-record fatto per sopravvivenza.

Per questo salutiamo con piacere questo Orpheus and the Mermaids, perché alla fine il risultato di tanto peregrinare da parte di questo svedese trapiantato in terra statunitense è l’essere arrivato a poter maneggiare una materia così “vecchia” come il folk con la sicurezza, e direi anche la “statura”, del nome di primo livello. In questi nove brani non c’è una nota o un giro di armonica che non richiami Bob Dylan (Forced To), ancora una volta Van Morrison (Pass on By) o Neil Young nella sua veste acustica (Jacksonville to Wichita), eppure sebbene le soluzioni siano quelle che già vi potete immaginare, a 55 anni Osborne dimostra piena padronanza del proprio songwriting, con testi anche molto interessanti. Il disco ha infatti tutta l’aria della confessione intima, a partire dalla produzione, con un suono acustico e cantautoriale molto rigoroso, al quale Anders concede poche soluzioni alternative in sede di arrangiamento (molto azzeccato il coro muto che commenta la bella Dreamin ad esempio). Osborne ha qualche storia personale da raccontare (Light up the Sun e Rainbows), ma soprattutto qualche sassolino nelle scarpe da togliersi, come quando ricorda l’amico Neal Casal prendendosela più o meno direttamente con quanti lo avevano lasciato solo proprio in quel momento di debolezza che lo ha portato al suicidio (Last Day in the Keys).

Non so quanto un disco così visceralmente legato al mondo della musica tradizionale americana possa aiutarlo ad evitare di essere ancora una volta ignorato da praticamente quasi tutte le più note testate musicali che non siano di marca strettamente roots/americana, ma voglio credere che la bontà di questi nove brani possa davvero farci ritrovare il suo nome in qualche classifica di fine anno in più. Perché questo vecchio folk non è solo puro manierismo, è la canzone d’autore americana che si ravviva ancora una volta, pur partendo sempre da lì, da una chitarra, un’armonica, e qualcosa che valga ancora la pena essere raccontato.


    



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